di powell e pressburger: immagine tratta dal libro new cinema in britain di roger manvell.
visioni
daniel day-lewis
con there will be blood arriva al terzo capitolo della sua epica americana, dopo l’ultimo dei moicani e gangs of new york. a questo punto i film in costume – contiamo anche camera con vista, l’età dell’innocenza, the crucible che non ho visto – prevalgono tanto nettamente nella sua filmografia rispetto all’asse jim sheridan e alle varie ed eventuali* da relegare a un oscuro passato l’esordio come protagonista in my beautiful laundrette.
furibondo, dolorante, storpio più nell’anima che nel corpo, daniel-daniel estrae l’oro nero dalle viscere della california più fangosa e polverosa che si sia mai vista, gettando con vigore luciferino le basi della nostra ormai stanca modernità a scoppio.
un film desolato e pieno di musica, sempre addosso ai personaggi, una specie di dead man realistico.
(ah, i tempi spensierati di fergus o’connell dentista in patagonia)
* ma the ballad of jack and rose è uscito in italia? pare ci sia anche lì l’inquietante paul dano.
sweeney todd
e l’annosa questione della vendetta: i film in cui il protagonista per tutto il tempo persegue una sanguinosa vendetta hanno di solito gli ingredienti per piacermi, eppure difficilmente mi piacciono fino in fondo, perché ho un problema a identificarmi col meccanismo. non sono vendicativa, forse mi manca un ingranaggio essenziale. o forse mi trasformerò in lady vendetta solo se adeguatamente provocata?
comunque, sia del corvo – per dire – sia di sweeney todd apprezzo la gotica cupezza e pure mi ci crogiolo, però sono fumettoni dove i personaggi risultano proprio un po’ troppo monolitici, alla fine. (park chan-wok è lì anche lui in buona compagnia, però va ben oltre il fumettone.)
lamentela di p: ma quand’è che tim burton smette di fare i cartoni animati e torna a fare i film?
(posso anche essere d’accordo, però prima lasciamogli fare alice!)
questa settimana ho visto due film con delon
di quelle belle coproduzioni italofrancesi di una volta:
la prima notte di quiete di zurlini
i senza nome (le cercle rouge) di melville
amarezza e disillusione a palate.
(per la serie «1 million ways to die»: si potrebbe compilare così una filmografia)
il sacro segno dei mostri
di manfredini non sarebbe proprio lo spettacolo da scegliere per svagarsi (rispetto a una situazione familiare decisamente pesa), vero? eppure ha quel suo modo di strapparti un sorriso nella devastazione, non si sa mai se censurare il riso per rispetto del personaggio o indulgervi sperando in una catarsi.
avevamo degli assurdi posti d'angolo in prima fila (il 5, sera della prima a milano), che si sono rivelati peraltro vicini in modo quasi imbarazzante all'angolo in cui dm interpreta la signora senza gamba – e sulla trama non dico altro.
quote, più o meno:
«oggi sono felice. erano quattordici anni che non mi sentivo così felice. sarà un falso allarme.»
mentre gennaio avanza
tra malanni e varie ansie e grane, stranamente ho finito alcuni libri.
primo romanzo dell’anno the road di cormac mccarthy, molto bello ma alla fine ho pianto come una vite tagliata. subito dopo mi è venuto da riprendere in mano il mago di oz (che volevo leggere prima di natale) e dopo tutto i due viaggi di ragazzini che devono trovare una famiglia – con annessa questione se sia meglio la famiglia naturale o quella che ti ritrovi/scegli a prescindere dai legami di sangue – in qualche strano modo si sono completati a vicenda.
quindi ho letto i racconti di truman capote, che sono belli assai, quasi tutti, e inoltre mi hanno fatto tirare fuori the collected dorothy parker – immagino che leggerò tutti i racconti, non ricordandomi più se li ho già letti o no.
pare infatti che mi sta venendo un po’ un’ossessione newyorkese (chissà che non si riesca prima o poi a fare quel viaggio). oggi ho visto la prima edizione di new york. l’isola delle colline di maffi (il bel volumetto del saggiatore) e me ne sono impadronita; la settimana scorsa ho guardato pelham 123 con un interesse forse superiore alle reali attrattive del film – che comunque piace, se, scopro oggi, lo rifarà tony scott con denzel washington e john travolta. (ma per quanto io ami denzel washington, mi arriva un’impressione di noia a immaginarmelo in un ruolo di walter matthau.)
l’epifania
tutte le feste si porta via, ma lasciandosi dietro un bel virus di quelli che fanno venire la febbre, tiè.
prima dell’escalation odierna sono riuscita ad andare alla mostra di lynch alla triennale: d.l. al suo più tetro, a parte l’installazione finale.
assai interessante, visto pure il corto grandmother (il muto second lynch, 1970), in una saletta fatta come un piccolo cinema d’antan.
direi banalmente che bazzicare un lynch tridimensionale inquieta quanto se non più che incontrare quello cinematografico. e poi sarà un po’ difficile guardare i classici disegni infantili («io e la mia casa») con occhi innocenti.
ma qualcuno sa che tecnica usa il nostro usa per incrostare quelle tele di materia pseudorganica?
il film londinese di cronenberg
alla fine è arrivato (e non è tratto da martin amis). come già si è detto, è uno history of violence 2 – non solo per l’immane presenza di viggo mortensen – dove la violenza è ancora più inevitabile e ambigua (ogni azione «professionale» del protagonista richiede prima qualche orrenda brutalità; la personalità che rimane nascosta per sempre è quella «buona»). e non mancano i rovelli cronenberghiani su indentità incerte e corpi mutanti, né i grandi attori. eppure qualcosa manca: i nessi narrativi sembrano un po’ ridotti a una serie di andirivieni in macchina e in moto, la voce fuori campo non mi ha convinto del tutto, e l’epilogo mi ha colto di sorpresa – mi pare che il finale arrivi troppo presto.
insomma sono abbastanza d’accordo con recensioni come reelviews e antagony and ecstasy.
mark lewis
visto al centro andaluz de arte contemporáneo di siviglia, dev’essere la stessa mostra di londra.
notizie su di lui: per esempio qua .
il progetto haygate estate.
cose salienti: è canadese; fa brevi film in 35mm (poi riversati in hd per la videoproiezione nei musei), lavora sulla durata e sui movimenti dello sguardo. insegna al central saint martins college of art and design di londra. che i suoi film stiano nelle gallerie d’arte è molto appropriato, è come vedere un quadro che con estremo rigore si anima o impercettibilmente si sposta.
mi sembra un lavoro interessante, proprio cinema sperimentale, non equivoca «videoarte» (forma ibrida che spesso mi dice poco, magari per scarsa attenzione al mezzo e la bruttezza non voluta delle immagini).
con i film sugli anni 60
non stiamo un pochino esagerando? (e se lo dico io.)
comunque ringrazio per l’abbondanza di across the universe, puro rapimento visivo, irresistibile anche se in fondo voleva solo dirti che le canzoni dei beatles sono sempre belle ieri e oggi e in qualsiasi condimento, che la gioventù è una gran bella cosa, che i 60s erano un periodo eccitante (più al greenwich village che a liverpool peraltro). ma del resto, perché non lasciarselo dire da julie taymor, lei c’era e ha pure lavorato con bread and puppet.
mixed reviews
di factory girl si possono solo guardare i vestiti (pare
ricostruiti o ritrovati con cura filologica); è imbarazzante quanto la
protagonista risulti poco carismatica, a dispetto di ciò che viene
ripetuto dall’inizio alla fine del film, la solita banale ricostruzione
di ascesa e caduta di un personaggio di culto, superficialissima e
stravista. (Say what you will about Andy Warhol’s movies —
they may have been boring, but at least they weren’t as dull as as
“Factory Girl”)
il mio preferito, pur nella sua voluta bizzarria, forse resta i’m not there. dovrei rivederlo.
(certo è proprio un gemello di across the universe, comprese citazioni di spettacolo circense – bizzarro, che siano stati girati quasi contemporaneamente.)
