Potrebbe essere un altro scaffale da inventariare, quello dei libri d’epoca scovati in armadi ormai negletti. Einaudi, trad. di Arrigo Vita, 1957.
«Finché ciò esiste, ed esisterà sempre…» Sempre?
Potrebbe essere un altro scaffale da inventariare, quello dei libri d’epoca scovati in armadi ormai negletti. Einaudi, trad. di Arrigo Vita, 1957.
«Finché ciò esiste, ed esisterà sempre…» Sempre?
sarà che da qualche settimana non vado in libreria (a volte le librerie mi fanno paura) ma non avevo in mente la nuova collana di tascabili del gruppo rizzoli. a margine delle pertinenti critiche che ho letto oggi in merito, aggiungerei che il nome vintage potrebbe pure essere giustificato nel senso di libri «d'annata», magari non ancora «invecchiati» ma destinati a restare (poi dare un nome inglese a una collana di libri italiana a me fa ribrezzo, ma sarò io).
la lettera v, però, mi ricorda molto il logo che aveva negli anni 90 vintage, casa editrice inglese proprio di paperback (dei marchi letterari del gruppo random house).
(v per v, perché non chiamarla «vendetta», la collana)
che il tè sia la mia sostanza-rifugio si sa, e dunque l’accumulo di provviste del genere ha una sua giustificazione. l’altra settimana però ho comprato queste bustine di cui non avevo assolutamente bisogno, solo perché clipper mi instupidisce totalmente con il suo packaging.
il tè peraltro è molto buono e l’azienda impegnata a tutto campo su prodotti biologici e/o da commercio equo.
sembra però che i loro grafici, big fish (già artefici dei pacchetti di dorset cereals, di cui sono caduta vittima numerose volte), abbiano un mio identikit da usare come profilo del consumatore ideale e ciò mi mette a disagio: faccio bene a premiare la bellezza del loro lavoro e la qualità dei prodotti che riveste, oppure sono solo un’altra psicolabilità nel grande sistema del commercio?
in altri termini: resistere al richiamo della teiera rétro (con rosellina incorporata, l’avete vista) sarebbe un saggio atto di spirito critico o un inutile atto di automortificazione?
(prego di andare a guardare la serie di pacchetti «drink me», ispirati ad alice nel paese delle meraviglie, prima di rispondere.)
si è distinta per:
il motivo curvilineo sulle strisce pedonali
il carattere «basco» (in poche minime varianti) di quasi tutte le insegne. magari se avessi visitato il museo di cultura basca al casco viejo ne saprei di più; da google invece si evince poco, se non che bisogna chiedere a thierry arnaut, il quale si è studiato il carattere e ne commercializza versioni elettroniche. a me non ricorda tanto delle lapidi medievali quanto un gusto smaccatamente anni settanta, chissà perché. comunque non è una gran bellezza.
quanto alle sonorità della lingua basca: non pervenute. in 5 giorni trascorsi fra città e montagne (bazzicando il più possibile locali e mezzi pubblici), neanche due persone che si parlassero in euskara, maledizione.
(agli avidi di manifestazioni di orgoglio basco non resta che prendere nota delle bandiere che denunciano la dispersione dei prigionieri eta in carceri lontani; e forse qualche graffito indipendentista in zone molto periferiche di bilbao.)
1. paul klee, concerto a colori, il saggiatore 1962, copertina di bruno binosi
2. christian metz, semiologia del cinema, garzanti 1980, copertina di marco volpati
3. poe, doyle, chesterton, simenon, borges, il racconto poliziesco, la nuova italia 1967, in copertina un ritratto di conan doyle