Traduzioni in barca

Dopo l’immersione traduttiva nelle biografie di Sara Seager e Margaret Atwood, ritrovo con piacere il topos del viaggio in canoa canadese – con i suoi dislivelli del vedere – in questa poesia di Michael Ondaatje. La chiusa per la verità potrebbe anche essere inglese – traducendo il suo romanzo Luci di guerra, ambientato negli anni Quaranta, avevo amato le scene di navigazione sul Tamigi e circostanti vie d’acqua. Solo ora mi viene da accostarle a un’altra navigazione sul Tamigi, quella di Tre uomini in barca di Jerome (traduzione costata molte ricerche sulle tipologie di chiuse fluviali).

How I loved that lock when I saw it / all those summers ago, / when we arrived / out of a storm into its evening light

Hey, babe, it’s the 4th of July

Concerto di Bruce Springsteen allo stadio San Siro, Milano, con vista sulla città sullo sfondo. La scena mostra il palco, i musicisti e una folla di fan entusiasti.

Quale miglior modo di riprendere la mia storica serie sulle rockstar attempate: Springsteen a San Siro, 3 luglio 2025. Il quarantennale dello storico concerto cui non riuscii ad andare nella mia disadattata adolescenza, lacuna che evidentemente né il suo concerto del 1988 a Torino né i millemila concerti di altra gente visti in seguito poterono colmare, se, abbandonata a me stessa in una torrida estate milanese, decido di comprarmi un biglietto d’avanzo al terzo anello e dirigermi colà, solo perché posso farlo, uscire di casa e prendere la metropolitana. Fossi stata sul prato avrei potuto portare un cartello, la citazione ce l’avevo pronta: We learned more from a three minute record than we ever learned in school (in mancanza di ciò, massima solidarietà al reduce che innalzava tra le prime file la richiesta fallimentare ma commovente – di più, straziante – di Lost In The Flood). Anche perché il concerto di tre giorni prima si era aperto proprio con No Surrender, il pezzo migliore di Born In The U.S.A. (ma come, e Cover Me, e Bobby Jean? ok, ok). E invece no: ieri sera il concerto comincia con My Love Will Not Let You Down, buona outtake del 1982 (pubblicata nel 1998, quindi estranea al mio nucleo formativo) che somiglia in alcuni punti della melodia a Chimes of Freedom di Dylan, e quindi incornicia perfettamente il concerto. Poi lo straniante salto all’indietro: al terzo anello si sente così male che quasi non ci si crede, Prove It All Night e Darkness On The Edge Of Town così, uno-due. Quattro pezzi ci saranno da Darkness, cominciando con lo skyline di Milano ancora illuminato dal sole. Poi il nucleo politico del tour, una dozzina di canzoni interpretate in chiave visceralmente antitrumpiana, compresi The Promised LandMy HometownThe River; nulla da Nebraska ma Youngstown da The Ghost of Tom Joad (con l’amore che ha quest’uomo per il suo paese e noi per lui, cosa vuoi stare a ricordargli che la mania di esportare la democrazia ce l’hanno sempre avuta, eh). E in tutto questo si perdonano anche i pezzi blandi più recenti, la band li porta su. In mezzo la gioia di Hungry Heart, un settantacinquenne con le mani da bambino, fra la gente. Because The Night, sì grazie (con la spocchia di chi sapeva che era di Springsteen prima di almeno 30.000 dei presenti, e guardava Fuori orario anche per quello). Badlands, che non so perché l’ho avuta in mente per giorni prima del concerto. Thunder Road cantata a squarciagola, la so ancora tutta dopo quarant’anni di stretta dieta post-punk inglese. L’encore riporta ai concerti di una volta, con le cover di rock ’n’ roll, l’enfasi sulla band, meno scherzi fra loro e il ricordo di chi non c’è più (Danny Federici e Clarence Clemons – ma al sax c’è suo nipote).
Sei pezzi in comune con la scaletta dell’88, forse un’ora in meno di concerto, una giusta proporzione – delle persone con cui c’ero andata, una è morta, l’altra l’ho persa di vista da decenni. La maglietta che avevamo preso l’ho ancora, c’è scritto Made in the USA. Le foto ai concerti mi vengono sempre con i fantasmi dentro.

La nostra stagione preferita, The Cure e Ernest Dowson

Ripristiniamo la tradizione del post autunnale, e pure un po’ cimiteriale.


Esce il primo novembre l’album nuovo dei Cure, annunciato dal singolo Alone che Smith dice ispirato a una poesia di Ernest Dowson.
Dregs fa parte della raccolta Decorations: in Verse and Prose, 1899; il poeta, alquanto maledetto, sarebbe morto l’anno seguente.
Qui altri suoi testi (risulta sua l’espressione the days of wine and roses, così diffusa nel Novecento e nota da queste parti per il memorabile disco dei Dream Syndicate).

Tra le mille traduzioni possibili ne abbozzo una un po’ antiquata per mantenere le rime, con il difetto evidente di risultare meno immediata dell’originale – veramente contiguo al lessico delle canzoni inglesi con cui siamo cresciuti – e poi una in versi sciolti (in versi liberi non mi riesce, stante un vincolo metrico nell’originale). 

Se avete altre proposte, fatemi sapere!

Dregs di Ernest Dowson

The fire is out, and spent the warmth thereof
(This is the end of every song man sings!)
The golden wine is drunk, the dregs remain,
Bitter as wormwood and as salt as pain;
And health and hope have gone the way of love
Into the drear oblivion of lost things.
Ghosts go along with us until the end;
This was a mistress, this, perhaps, a friend.
With pale, indifferent eyes, we sit and wait
For the dropt curtain and the closing gate:
This is the end of all the songs man sings.

Il fondo

Il fuoco è spento, esausto il suo calore
(così finisce ogni canzone umana!)
Doglioso sale dopo il vino biondo,
amaro come assenzio resta il fondo;
perse speme e salute con l’amore
nell’oblio tetro di ogni cosa vana.
Ancora indugia qualche spettro antico;
qui un’amante, là forse un amico.
Con occhi indifferenti noi si attende
la porta chiusa, il sipario che scende:
così finisce ogni canzone umana.

oppure:

Il fuoco è spento, esausto il suo calore
(questa è la fine di ogni canto umano!)
Bevuto il vino d’oro, resta il fondo
amaro come assenzio, come il dolor salato;
speranza e salute svaniscon con l’amore
nell’oblio tetro delle cose perse.
Ci affiancano i fantasmi sino alla fine;
questa era un’amante, quello là un amico.
Si attende con occhi smorti e indifferenti
il sipario calato, la porta che si chiude:
questa è la fine di ogni canto umano.

(traduzioni di A. Bariffi)

Il 25 aprile è divisivo solo se sei fascista

Non so come sia nato lo slogan ma certo ora ce n’è bisogno, mentre nella mia infanzia e giovinezza era ovvio che questa festa nazionale appartenesse a tutti.
Quando mio papà spiegava la sua iscrizione all’ANPI dicendo che aveva «solo tenuto in mano un moschetto nei giorni della liberazione», era difficile fargli raccontare di più. Ora vedo che nel settembre 2005 di era messo a scrivere quei ricordi. Ma proprio in quel periodo è successa una cosa che l’ha interrotto (e questa è un’altra storia, come si suol dire). Non è andato oltre le prime due pagine, scritte a mano con la sua grafia minuta sul retro di fotocopie. Niente episodi eroici, niente rivelazioni storiche, niente intenzioni celebrative, semmai un certo senso dell’umorismo (il terzo paragrafo doveva intitolarsi «Formaggio e nostranèl»). Ma resta la prova che l’antifascismo era normale anche per un mite ventenne cattolico che era stato riformato alla leva e non aveva fatto il partigiano. Forse si stava un po’ schisci, per temperamento familiare, ma si ospitavano per la notte, prima che prendessero una barca, gli ebrei in fuga verso la Svizzera, dice la zia, e lo zio cui toccava la leva sotto la RSI scappò in montagna, fu arrestato e liberato per miracolo.
Siamo sulla sponda orientale del lago di Como (di quello che succedeva su quella occidentale già sapete).

Italia, Italia, cosa importa se si muore

28 aprile 1945 (?)

Il camion era fermo sulla strada circa all’altezza del sentiero che allora dalla via al Pontile di Coltogno (ora via Martiri della Libertà), fiancheggiato da un lato dalla vigna dei Pomi e dall’altro da vari orti, raggiungeva la Statale. Il motore era acceso, stava per partire, ma feci in tempo a salire sul cassone dove c’era già molta gente, partigiani, e anche dei giovani senz’armi. «Va’ e ritorna» era scritto sul camion e sul tetto della cabina era piazzata una mitragliatrice. Era diretto a Lierna, paese poco oltre il quale una colonna di tedeschi, ritiratasi da Bellano il 26 aprile, lasciata Varenna dopo uno scontro presso la stazione ferroviaria (con un morto per parte), si era fermata sotto la galleria prima di Olcio. 

Lungo il tragitto, preso anch’io dall’euforia di quei giorni, sparai un colpo in aria con il vecchio moschetto che, con due bombe a mano, costituiva il mio armamento. L’otturatore aveva un difetto, il tubetto a nasello dopo ogni colpo doveva essere spinto in avanti, altrimenti il percussore non agiva. Un ragazzo forse di Noceno, che mi era vicino, volle il bossolo di ottone.

I tedeschi non avevano voluto arrendersi ai partigiani. Aspettavano gli americani e nel frattempo si era stabilita una tregua.

Arrivato a Lierna non trovai i compagni della squadra che dal pomeriggio dell’insurrezione (iniziata a Bellano il 26 aprile) aveva presidiato il posto di blocco sulla strada presso la stazione F.S. rimanendo anche tutta la notte. Mi recai vicino all’imbocco della galleria dove erano i tedeschi. Una mitragliatrice leggera era piazzata all’inizio della galleria. Nelle vicinanze si notava un gruppo di partigiani con divise nuove di color grigioverde e berretto con visiera, su cui spiccava una sgargiante stella rossa. Erano impazienti, avrebbero voluto attaccare i tedeschi, far saltare la galleria…

A quel punto il comandante partigiano Al (Aldrovandi) tenne ai presenti un breve discorso, invitando alla calma… «Di acqua ne abbiamo presa tanta, e ne dovremo prendere ancora…» (il tempo era alquanto minaccioso). Tra i comunisti qualcuno commentò: «Lo conosciamo. È bravo a tenere dei bei discorsi…»

Sotto la galleria era permesso il transito dei civili e a un certo punto scorsi Mario: arrivava da Milano in bicicletta, diretto a Bellano, e mi diede un passaggio: mi accomodai sulla canna della bicicletta, stando attento alle «uova» (le due bombe a mano che avevo in tasca, prelevate nella caserma dei carabinieri di Bellano il 26). Ci allontanammo e passando dal ponte della Valvacchera vedemmo i partigiani che lo stavano minando per precauzione, nel caso di tentativo tedesco di fuga verso la Valtellina. Non pioveva. Si sentiva un canto lontano: «Italia, Italia, cosa importa se si muore…»

Sventolando il tricolor bandiera

Dopo una notte di guardia al posto di blocco sulla statale, presso la stazione ferroviaria di Bellano, la mia squadra era andata alla caserma del Convitto per la colazione. 

Il posto di blocco era stato da noi presidiato fin dal pomeriggio del 26 aprile, giorno in cui a Bellano era iniziata l’insurrezione. All’inizio circa del pomeriggio un interminabile suono della sirena del cotonificio Cantoni aveva dato l’annuncio. Tedeschi e fascisti si erano allontanati verso sud… Con il coscritto Antonio avevo fatto un giro passando dalla caserma dei carabinieri, aperta, nella quale ci lasciarono prendere alcune bombe a mano che mettemmo in tasca. Arrivammo poi alla piazza della stazione. C’era fermo un motocarro carico di moschetti. Li distribuivano, ne diedero uno anche a noi e fummo subito impiegati al posto di blocco. Un lungo palo sbarrava la strada in corrispondenza del sottopassaggio della ferrovia detto «la tomba». Dall’altro lato della strada c’era allora un piccolo garage.

Comandava la strada un partigiano armato di fucile mitragliatore, vestito in borghese, un montanaro della Val Varrone: ricordo che ai piedi aveva i tipici pedü di pezza, con suola a strati di stoffa cuciti tra loro e tomaia a punta, caratteristici della Valsassina e Val Varrone. Quando arrivava una macchina per passare, il palo veniva momentaneamente rimosso. Eravamo numerosi, ma, man mano che si avvicinava la sera e minacciava di piovere, qualcuno se ne andava per i fatti suoi. Io, Antonio ed altri rimanemmo tutta la notte. Passò il comandante della piazza «Renato», che scambiò con Silvestri, figlio di un ufficiale alpino, qualche parola sulla difesa del paese. Nella notte a un certo punto mi stesi un po’ sul cassone di un autocarro nel piccolo garage. Sentii arrivare l’Ettore (Bernasconi – marinaio medaglia d’argento).

Spari nella notte. Al mattino alcune donne delle case vicine ci portarono il caffè.

Andammo quindi al Convitto, grande costruzione un tempo adibita ad alloggio delle operaie del cotonificio, poi trasformata in caserma degli allievi ufficiali della Repubblica di Salò e ora sede del comando di piazza dei partigiani della … [55ª] brigata Rosselli.

Ci sedemmo vicino a un gruppo di giovani partigiani di Premana, evidentemente cattolici garibaldini. Notai infatti che portavano sulla giubba una piccola croce e la corona del rosario. Si misero a cantare «Soffia il vento, infuria la bufera…» Cantavano bene, i promàn (i premanesi) hanno il canto nel sangue. E, arrivati alla fine, quando «il fiero partigian» torna a casa vittorioso, anziché «la sua rossa bandiera» risuonò nella sala un poderoso «sventolando il tricolor bandiera»!

Scaffali: Mrs. Dalloway

Various editions of Mrs. Dalloway by Virginia Woolf

Quando non si lavora si ha finalmente tempo di riordinare gli scaffali; in questo caso i libri accumulatisi prima, durante e dopo la traduzione di Mrs. Dalloway (e dei racconti e del romanzo biografico di Emmanuelle Favier).
Bibliografia un po’ selvaggia, sì, ma in realtà guidata da esigenze specifiche: quelle di analisi stilistica e interpretazione precisa di testo e contesto. Si traduce dall’edizione critica, ma i Complete Works di Delphi in digitale sono preziosi a mo’ di concordanze. Più dei saggi critici contenutistici a volte servono analisi scolastiche e tesi di laurea che approfondiscono un dettaglio lessicale o sintattico (non stendo la lista di articoli accademici et similia perché sono pigra). E poi rimane un riflesso condizionato per cui ci si mette in casa ogni curiosità trovata in giro.
Delle traduzioni italiane storiche – da guardare rigorosamente dopo aver tradotto, in cerca di un conforto che non si troverà – manca quella di Pier Francesco Paolini, Newton Compton 1992.
E bisognerà caricare nel reader i diari completi appena pubblicati da Granta.

Dunque ecco qui lo scaffale – primario, secondario, varie ed eventuali.

Mrs. Dalloway, The Hogarth Press 1976 (13th impression)
Mrs. Dalloway, with an introduction and notes by Elaine Showalter, text edited by Stella McNichol, general editor Julia Briggs, Penguin Classics 2000 (1a ed. 1992)
Mrs. Dalloway, edited by Anne E. Fernald, Cambridge University Press 2017 (1a ed. 2015)
The Annotated Mrs. Dalloway, edited by Merve Enre, Liveright Publishing Corporation 2021

La signora Dalloway, tr. di Alessandra Scalero, Oscar Mondadori 1989 (1a ed. 1946)
La signora Dalloway, tr. di Laura Ricci Doni, con uno scritto di Paul Ricoeur, SE 1992
La signora Dalloway, tr. e intr. di Nadia Fusini, Feltrinelli 2014 (1a ed. 1993)
La signora Dalloway, tr. di Anna Nadotti, intr. di Antonella Anedda, Einaudi 2012
La signora Dalloway, a c. di Marisa Sestito, con testo a fronte, Marsilio 2012

The Complete Shorter Fiction, ed. by Susan Dick, Harcourt 1989
Selected Diaries, abridged and edited by Anne Olivier Bell, introduction by Quentin Bell, Vintage 2008 (1a ed. Hogarth Press 1990)
Selected Letters, ed. by Joanne Trautman Banks, preface by Hermione Lee, Vintage 2008 (1a ed. Hogarth Press 1989)
Lunedì o martedì. Tutti i racconti, a c. di Mario Fortunato, Bompiani 2017 (il volume che per qualche motivo ha in copertina la madre di VW ritratta da sua zia Julia Margaret Cameron)
Per le strade di Londra, tr. di Livio Bacchi Wilcock e J. Rodolfo Wilcock, Il Saggiatore 1963

Jessica Berman (ed.), A Companion to Virginia Woolf, Wiley Blackwell 2016 (ebook)
Julia Briggs, Virginia Woolf: An Inner Life, Penguin Books 2006, ebook (1a ed. Allen Lane 2005)
Molly Hoff, Virginia Woolf’s Mrs. Dalloway: Invisible Presences, Clemson University Press 2009
Nicholas Marsh, Virginia Woolf: The Novels, Macmillan 1998
Francine Prose (ed.), The Mrs Dalloway Reader, Harcourt 2003
Sara Sullam, Tra i generi: Virginia Woolf e il romanzo, Mimesis 2016
Michael H. Whitworth, Virginia Woolf, Oxford University Press 2005 (ebook)
Michael H. Whitworth, Virginia Woolf: Mrs Dalloway, Palgrave 2015

Michael Cunningham, Le ore, Bompiani 2001 (1a ed. 1999)
Michael Cunningham, Mr Brother, Bompiani 2002

John Donne, Poesie sacre e profane, prefazione di Virginia Woolf, introduzione di Giles Lytton Strachey, tr. di Rosa Tavelli, Feltrinelli 1995
William Morris, Political Writings, ed. by A.L. Morton, Lawrence & Wishart 1973
Monique Nathan, Virginia Woolf, tr. di Pietro Lazzaro, illustrazioni b/n, Mondadori 1962
Liliana Rampello, Joan Russell Noble, a c. di, Virginia Woolf e i suoi contemporanei, tr. di Lucia Gunella, Il Saggiatore 2017
Nino Strachey, Stanze tutte per sé, tr. di Claudia Valeria Letizia, L’Ippocampo 2018
Lea Vergine, Un altro tempo: tra decadentismo e Modern Style, Il Saggiatore 2012

Gli scaffali sono minibibliografie (o a volte anche discografie) compilate a posteriori, prendendo atto del contenuto delle mensole domestiche.

Vent’anni dopo

Perché mai tenere online un blog nato vent’anni fa? Confermo che «nato come To drown a rose in tempi di anonimato in rete, esterofilia e manifesti programmatici, questo archivio resta un inventario di cose lette sentite viste pensate che attira insperato traffico da google su argomenti balzani», e poi è in fondo la mia unica casa online – il resto è fuffa. Mi sembra anche una specie di resistenza all’internet (quasi tutta) orribile di adesso. Pagare due domini, la pubblicazione senza pubblicità, senza desiderare un minimo di traffico. Senza neanche aggiornare i link «rotti». Certo, ho anche predisposto un profilo Substack, nel caso che un cambiamento di piattaforma mi faccia venire qualche ispirazione. Mi piace Substack. Ma una newsletter la trovo un po’ presuntuosa: non ho mai avuto niente da dire direttamente agli altri online, ho solo messo in fila qualche idea nel caso suscitasse un po’ di complicità. Sarebbe un giorno perfetto per dichiarare chiuso il blog, oggi, e forse è quello che sto facendo… o forse no?

Scaffali: Truman Capote

Scaffale grassottello accumulatosi 1. per amore, 2. durante i lavori di redazione relativi all’autore, 3. durante la traduzione della biografia di Plimpton.

Bibliografia primaria

• In italiano
A sangue freddo, tr. di Maria Paola Ricci Dettore, intr. di Vincenzo Mantovani, Oscar Mondadori 1986 (1a ed. Garzanti 1966).
A sangue freddo, tr. di Alberto Rollo, pref. di Andrea Vitali (ma nella mia copia manca la prima pagina), Garzanti 2022 (1a ed. 2019)
Altre voci altre stanze, tr. di Bruno Tasso, Garzanti 1949.
Altre voci altre stanze, tr. di Bruno Tasso, Garzanti 2000. (1a ed. 1949)
Colazione da Tiffany, tr. di Bruno Tasso, Garzanti 1992. (1a ed. 1959)
Colazione da Tiffany, tr. di Vincenzo Mantovani, Garzanti 2018. (1a ed. 2016)
Delizie e crudeltà. Lettere 1959-1982, a c. di Gerald Clarke, tr. di Filippo Balducci, pref. di Piero Gelli, Archinto 2004.
Dove comincia il mondo, tr. di Vincenzo Mantovani, Garzanti 2016.
Incontro d’estate, tr. di Stefania Cherchi, Garzanti 2011. (1a ed. 2006)
L’arpa d’erba, tr. di Bruno Tasso, Garzanti 1996. (1a ed. 1953)
La forma delle cose (tutti i racconti), tr. di Stefania Cherchi, Mariapaola Dettore, Paola Francioli, Bruno Tasso, intr. di Reynolds Price, Garzanti 2007.
Preghiere esaudite, tr. di Ettore Capriolo, premessa di Joseph M. Fox, Garzanti 2008. (1a ed. 1987)
Ritratti e osservazioni (scritti giornalistici), tr. di Stefania Cherchi, Mariapaola Dettore, Paola Francioli, Bruno Tasso, Garzanti 2008.
Romanzi e racconti, a c. di Gigliola Nocera, traduttori vari, con un saggio di Alberto Arbasino, Meridiani Mondadori 2005. (1a ed. 1999)
Un Natale e altri racconti, tr. di Ettore Capriolo, Mariapaola Dettore, Paola Francioli, Bruno Tasso, 1985.

Truman Capote, Eleanor Perry, Frank Perry, Trilogia. Un esperimento di trasposizione multipla, tr. di Ida Omboni, pref. di John M. Culkin, foto in b/n fuori testo, Garzanti 1972. (Tre racconti e le relative sceneggiature televisive: Miriam, Fra i sentieri dell’Eden, Un ricordo di Natale)

• In inglese
Breakfast at Tiffany’s, Penguin Classics 2000.
In Cold Blood, Penguin Essentials 2012.
Portraits and Observations. The Essays of Truman Capote, Random House 2007.
The Complete Stories, intr. di Raynolds Price, Random House 2004.
The Early Stories, pref. di Hilton Als, Random House 2015.

Bibliografia secondaria
Intervista a Truman Capote, tr. di Irene Duranti, in AA.VV., The Paris Review interviste vol. 1, tr. di Francesca Valente et alii, intr. di Philip Gourevitch, Fandango 2009.
Gerald Clarke, Truman Capote, tr. di Luigi Schenoni, Frassinelli 1989.
Lawrence Grobel, Colazione da Truman. Incontri con Capote, tr. di Lucio Carbonelli, pref. di James A. Michener, Minimum Fax 2007.

Gli scaffali sono minibibliografie (o a volte anche discografie) compilate a posteriori, prendendo atto del contenuto delle mensole domestiche.

Box 3, spool 5

Rivedere L’ultimo nastro di Krapp trent’anni abbondanti dopo David Warrilow. In italiano, interpretato da Giancarlo Cauteruccio. (Ma perché solo dieci persone a vederlo? Perché solo dieci persone anche l’altra volta che sono andata alla rassegna di conversazioni e teatro su Pasolini e Beckett curata da Doninelli? Qui ci vorrebbe un’appassionata difesa delle sale parrocchiali.)
Due cose, principalmente (o tre).

Rivedere Krapp dopo trent’anni e non avere nastri di trent’anni fa. Poteva essere una buona idea, peccato essere giovani e incoscienti. Ci sarà gente che ha preso lo spunto da Beckett e si è registrata degli appunti diaristici sonori invece di scriverli? Pare impossibile non averci mai pensato prima d’ora, come un “giorno dell’anno” (Christa Wolf) sonoro.

Rivedere Krapp nell’era del digitale. Per definizione si svolge in the future /d’ici quelque temps. Testo del 1958. A fine Novecento eravamo nell’epoca dei registratori a cassetta, ma il principio era quello, riconoscibile (negli studi radiofonici i registratori a bobina esistevano ancora); eravamo, in effetti, nel futuro (la registrazione su nastro è disponibile dagli anni 50, e Krapp ha registrato per circa 40 anni). Non so esattamente come funzioni la regia audio di Cauteruccio; la macchina c’è, ma, se è mai stata manovrata direttamente dall’attore – forse no: anche originariamente il suono veniva dalla regia? – certamente non lo è oggi. E oggi è facilissimo prendere appunti sonori (o video, volendo) con il marchingegno che abbiamo sempre in tasca. Dunque ha ancora senso (a parte il testo meraviglioso) mettere in scena Krapp? Forse sì, perché rende visibile l’insensatezza della tentazione di oggettivare la memoria – di registrare tutto – sviluppatasi col digitale.

Rivedere Krapp in italiano (classica traduzione di Fruttero). Spool: bobina. Bobiiina! Certo, in francese è bobine. Box three/spool five: tecnico, veloce. Boîte trois/bobine cinq: allitterante. Scatola tre/bobina cinque: molte sillabe, burocratico.

In copertina dell’Oscar Mondadori (1983), disegno di Ferenc Pintér.

Romanzi sui traduttori

Pablo De Santis, La traduzione, tr. di Elena Rolla, Sellerio 2001

Biagio Goldstein Bolocan, Il traduttore, Feltrinelli 2017

Brice Mathieussent, La vendetta del traduttore, tr. di Elena Loewenthal, Marsilio 2009

Idra Novey, Ways to Disappear, Little, Brown, 2016 (La donna che sparì con un libro, tr. di Letizia Sacchini, Garzanti 2017)

Ne conoscete altri?