Versi famosi e apparentemente semplici

Quanti modi ci saranno di tradurli in italiano? Addio, in questo caso, alla rima.

L’Adieu
di Guillaume Apollinaire (Alcools, 1913)

J’ai cueilli ce brin de bruyère
L’automne est morte souviens-t’en
Nous ne nous verrons plus sur terre
Odeur du temps brin de bruyère
Et souviens-toi que je t’attends

L’addio
Ho colto questo filo d’erica
l’autunno è morto tu ricordalo
non ci vedremo mai più in terra
odor del tempo filo d’erica
e tu ricorda che t’aspetto

(Traduzione di Alba Bariffi)

Un sonetto di Edna St. Vincent Millay

Fino a che dura questa sigaretta,
attimo breve alla fine di tutto,
mentre la cenere muta cade a terra
e alla luce del fuoco fatta lancia,

fondendosi alla musica ribelle,
l’ombra spezzata danza sopra il muro,
lascerò rievocare alla memoria
la visione di te, seguita dai miei sogni.

E poi adieu, – saluti! – il sogno è spento.
Della tua faccia so dimenticare
colore e tratti, l’uno dopo l’altro,

non le parole, i sorrisi non ancora;
ma nel tuo giorno questo attimo è il sole
su una collina, dopo il suo tramonto.

Traduzione di Alba Bariffi

Testo originale

Sonetto lo era prima che ci mettessi le mani io; «all’italiana» come schema, se non ovviamente come metro. Ma in traduzione la rima dà troppe costrizioni rispetto al senso del testo (anche se la prima strofa mi era riuscita), e alla fine pure la ricerca di un metro unico; non so se valga la pena. Benché al senso dell’originale si possa fare un po’ la tara di cosa fosse stato evocato dal metro e dalla rima, senza voler tenere ossessivamente ogni dettaglio…

Varianti d’autunno

Fra ottobre e novembre, un paio di traduzioni stagionali.

Anna George Meek
Il gatto di Dracula

Più agile sono, e vivo,
di lui che pure caccia nella notte.
Frusciamo i campi dove le cince tremano;
sorbiamo l’acqua nera dalle prede.
Salto le lame d’erba, sguainata l’aria,
la luna della forma del mio occhio. È svelto
per un pipistrelletto, ma io pranzo per primo:
ho la mortalità che scatta nelle anche.
Mangio e scopro il ventre nella sanguinaria
a scherno dell’aquila magra che mi vuole.
Succhia tuttora la sua salma, il pipistrello.
Gli strapperei le ali e rotolerei
l’anima sua in eterno fra le zampe,
ma lui solo mi fa entrare prima dell’alba
a scalare le tende del castello. Dopo,
mi solluchero al sole mentre dorme
nella sua cassa – che solo una volta gli ho imbrattato.
Amo il vibrare del mio corpo caldo.
Amo la mia deliziosa vita breve.

Traduzione di Alba Bariffi

Thank you Anna George Meek – grazie all’autrice per aver gentilmente concesso la pubblicazione.
Testo originale


Montague Rhodes James
C’era un uomo che abitava vicino a un camposanto

Questo, come sapete, è l’inizio della storia su spiriti e folletti che Mamilius, il più bel bambino di Shakespeare, stava raccontando alla regina sua madre, e alle dame di corte, quando arrivò il re con le sue guardie e la portò via in prigione. La storia non prosegue; Mamilius muore poco dopo, senza aver avuto l’opportunità di finirla. Ma come sarebbe stata? Shakespeare lo sapeva, senza dubbio, e avrò l’audacia di dire che lo so anch’io. Non doveva essere una storia nuova: doveva essere una che con molta probabilità avete già sentito, e persino raccontato. Ognuno può metterla nella cornice che preferisce. Questa è la mia:
C’era un uomo che abitava vicino a un camposanto. La sua casa aveva un piano inferiore di pietra e un piano superiore di legno. Le finestre della facciata davano sulla strada e quelle del retro sul camposanto. Una volta la casa apparteneva al prete della parrocchia, ma (siamo al tempo della regina Elisabetta) il prete era un uomo sposato e aveva bisogno di più spazio; inoltre, a sua moglie non piaceva vedere il camposanto di notte dalla finestra della camera da letto. Diceva di vedere… ma non importa quel che diceva; comunque, non diede pace al marito finché lui non acconsentì a traslocare in una casa più grande nella via principale, e quella vecchia fu presa da John Poole, che era vedovo e ci viveva da solo. Era un uomo anziano che stava molto per conto suo, e la gente diceva che era un po’ un taccagno.
Era molto probabilmente vero: di certo costui era morboso per altri aspetti. A quei tempi era comune seppellire la gente di sera, alla luce delle torce: e fu notato che tutte le volte che era in corso un funerale, John Poole stava sempre alla finestra, o al pianterreno o di sopra, a seconda che riuscisse ad avere una visuale migliore dall’una o dall’altra.
Giunse una sera in cui doveva essere sepolta una vecchia. Era piuttosto benestante, ma in paese non era amata. Si diceva di lei la solita cosa: che non era mica cristiana, e che in notti come San Giovanni e Ognissanti non si trovava mai in casa. Aveva gli occhi rossi e un aspetto orribile, e nessun mendicante bussava mai alla sua porta. Eppure quando morì lasciò una borsa di denaro alla Chiesa.
Non ci fu tempesta la sera della sua sepoltura; il tempo era bello e calmo. Ma ci fu qualche difficoltà a trovare necrofori e tedofori, nonostante la defunta avesse lasciato compensi più alti del solito per chi faceva quel lavoro. Fu sepolta nel sudario di lana, senza bara. Non c’era nessuno a parte le persone strettamente necessarie – e John Poole, che guardava dalla finestra. Appena prima che la tomba fosse riempita, il curato si chinò e gettò qualcosa sul corpo – qualcosa che tintinnò – e a voce bassa disse parole che suonavano come «Il tuo denaro perisca con te». Poi si allontanò rapidamente e così fecero gli altri uomini, lasciando solo un tedoforo a illuminare il becchino e il suo garzone mentre spalavano la terra nella fossa. Non fecero un lavoro molto accurato, e il giorno dopo, che era una domenica, chi andò in chiesa fu piuttosto brusco con il becchino, dicendogli che era la tomba più in disordine del cimitero. E in effetti, quando venne a guardarla anche lui, gli parve che fosse peggio di come l’aveva lasciata.
Nel frattempo John Poole si aggirava con un’aria strana, in parte esultante, per così dire, e in parte nervosa. Più di una volta passò la serata alla taverna, il che era del tutto contrario alle sue abitudini, e a coloro che si mettevano a parlare con lui lasciò intendere che era venuto in possesso di un poco di denaro e stava cercando una casa leggermente migliore. «Be’, non mi meraviglio», disse una sera il fabbro, «a me non piacerebbe quel posto lì. Passerei la notte a immaginarmi delle cose.» Il locandiere gli chiese che genere di cose.
«Be’, magari qualcuno che si arrampica fino alla finestra della camera, o simili», disse il fabbro. «Non so – la vecchia Wilkins l’hanno seppellita giusto una settimana fa, eh?»
«Suvvia, potresti anche avere rispetto dei sentimenti di una persona, secondo me», disse il locandiere. «Non è tanto piacevole per padron Poole, no?»
«Padron Poole mica ci bada», disse il fabbro. «Ci ha abitato abbastanza per saperlo. Dico solo che io non la sceglierei. Con la campana a morto, e le torce quando c’è un funerale, e tutte quelle tombe che stanno lì in silenzio quando non c’è in giro nessuno: però dicono che c’è delle luci – lei non vede mica delle luci, padron Poole?»
«No, non ne vedo di luci», disse scontroso padron Poole, e chiese ancora da bere, e rincasò tardi.
Quella notte, mentre stava di sopra nel suo letto, un vento lamentoso cominciò a girare per la casa, e lui non riusciva a addormentarsi. Si alzò e attraversando la stanza andò a un piccolo armadio a muro: ne estrasse qualcosa che tintinnava e se lo mise in seno alla camicia da notte. Poi andò alla finestra e guardò fuori nel camposanto.
Avete mai visto in chiesa una vecchia targa con la figura di una persona in un sudario? In cima alla testa forma una curiosa increspatura. Una cosa del genere spuntava dal terreno in un punto del camposanto che John Poole conosceva molto bene. Si precipitò dentro il letto e lì rimase completamente immobile.
Poi qualcosa fece un debolissimo rumore al telaio della finestra. Con una tremenda riluttanza John Poole volse gli occhi da quella parte. Ahimè! Tra lui e la luna c’era il profilo nero della curiosa testa increspata… Poi ci fu una figura nella stanza. Del terriccio secco ticchettò sul pavimento. Una bassa voce spezzata disse: «Dov’è?» e dei passi andarono da una parte all’altra, passi esitanti come di qualcuno che cammini con difficoltà. Ogni tanto si riusciva a vedere la figura che scrutava negli angoli, si chinava per guardare sotto le sedie; infine la si sentì armeggiare agli sportelli dell’armadio a muro, che si spalancarono. Ci fu un raspare di unghie sui ripiani vuoti. La figura si voltò di scatto, si fermò per un istante a fianco del letto, alzò le braccia e con un urlo rauco: «CE L’HAI TU!» –
A questo punto sua altezza reale il principe Mamilius (che, secondo me, la storia l’avrebbe fatta molto più breve) si gettò con un alto grido sulla più giovane delle dame di corte presenti, che reagì con uno strillo altrettanto acuto. Lui fu immediatamente afferrato da sua maestà la regina Ermione, che, reprimendo una propensione a ridere, lo scosse e lo schiaffeggiò con gran severità. Tutto rosso, e piuttosto incline a piangere, il ragazzino stava per essere spedito a letto; ma per intercessione della sua vittima, che ormai si era ripresa dallo spavento, alla fine gli fu permesso di restare fino all’ora solita in cui ritirarsi; e a quel punto anche lui si era ripreso al punto da affermare, nell’augurare la buonanotte alla compagnia, che sapeva un’altra storia anche tre volte più paurosa di quella, e l’avrebbe raccontata alla prima occasione che si presentava.

Traduzione di Alba Bariffi

Testo originale

un’altra poesia di hart crane

molto frustrante, cimentarsi con «at melville’s tomb»… afferrare la lettera è abbastanza arduo da impedire tendenzialmente di andare oltre. cercare dei versi, per esempio, sembra diventare secondario, e non è il caso di aggiungere ambiguità (per esempio, non sono sicura che sia meglio «via da questo scoglio» del più chiaro «al largo di», ammesso che voglia dire questo – e, invece, banalizzare bequeath in «recare»?). già sottolineando una sfumatura sembra di forzare.

Al di sotto dell’onda, al largo di questo scoglio
i dadi d’ossa di annegati vide sovente
tramandare un’ambasciata. I numeri, davanti ai suoi occhi,
battevano sulla riva polverosa e s’oscuravano.

E relitti passavano senza suono di campane,
il calice generoso della morte
a ridare un capitolo in frammenti, geroglifico livido,
il presagio avvolto in corridoi di conchiglie.

Poi nella calma circolare di un’unica vasta spira,
placati i suoi colpi e sopito il rancore,
vi furono occhi ghiacciati ad innalzare altari;
e risposte mute attraversarono le stelle.

Bussola, quadrante e sestante non evocano
più maree lontane… Giù nel profondo color lapislazzuli
il canto funebre non desterà il marinaio.
Solo il mare conserva quest’ombra favolosa.

leggendo questa versione, per esempio, che reazione prevale?
a) che fatta cosa!
b) che brutta traduzione
c) non si capisce un tubo

Mi piacerebbe leggerne una fatta con un approccio diverso, se possibile…