the stranglers

al rolling stone un sabato sera, senza cornwell ovviamente (ma che tamarro è questo baz warne?), e purtroppo senza neanche il batterista jet black settantenne, mettono su ugualmente un concerto che sono contenta di aver visto. spiccio ma efficace. del resto fanno un greatest hits tour, quindi ce n'è per tutti, pure le cover walk on by e all day and all of the night (next best thing rispetto al sentire i kinks, suppongo.)

al ritorno, il quartiere è affollatissimo per la festa pre-sgombero del centro sociale pergola. all'una e un quarto fuochi artificiali: dalla finestra del terzo piano si vedono benissimo, sembrano fatti per noi… un paradossale buon anno a un quartiere assediato dai cantieri, che estromette la macchia di colore dell'ultimo centro sociale della zona.  bisognerà inventarsi qualcos'altro.

john martyn al joe’s pub

alla fine è stato l’unico concerto che siamo riusciti a vedere a new york – causa cattive notizie ricevute da casa, non eravamo tanto dell’umore di andare a cercare i clubbini trendy, mentre con il maliconico set di un sessantenne in città per farsi cambiare una protesi ero perfettamente in sintonia (scoperto la mattina stessa da un volantino sulla porta di other music).

è stato un concerto breve ma intenso: lieti di aver contribuito un pochino anche noi alla gamba nuova, caro john martyn, e di averti visto da vicino benché un po’ da dietro una colonna, a causa di quell’assurda abitudine dei luoghi da concerto alla blue note, di mettere sempre la gente a tavola a mangiare e bere. che diamine.

milano in settembre

presenta ormai una infruibile stratificazione di panoramica dei film di venezia/milano film festival sempre più esteso/festival musicale MITO/ripresa di concerti vari.
però non mi sono scoraggiata e ho visto:
il primo giorno d'inverno di mirko locatelli e ballast di lance hammer
fujian-blue di weng shou-ming e slow mirror dei bucharov (grazie al cielo per i titoli in «inglese internazionale»)
and now for something completely different dei monty python (contenente lo sketch sulla barzelletta che uccide)
il concerto dei killing joke che prevedibilmente era bello
il concerto degli afterhours che meno prevedibilmente – per me – era bello (su afterhours e scerbanenco: vedi)

ah, dopo terry gilliam è arrivato pure vincent gallo, che  mi piace sempre di più dopo averlo visto live (ma che folla c'era… perché?), e persino dopo aver visto the brown bunny, forse per la tenerezza che mi fa l'esistenza di un film così improponibile, con un titolo del genere (da vedere, però, almeno il trailer).
si potrebbe anche approfondire l'argomento dibattendo non sulla famigerata scena di brown bunny, ma magari se sia vero che, come dice un commento di youtube, vg sembra il figlio di david lynch e woody allen; se la sua sfida al senso dell'umorismo americano – v. il sito, le dichiarazioni politicamente scorrette, le bizze da star – abbia un senso; se gli effervescenti aneddoti autobiografici abbiano un fondamento o no… non adesso però, perché ho festeggiato l'equinozio d'autunno pigliandomi un'infreddatura colossale e desidero solo raggomitolarmi da qualche parte (è per questo, in realtà, che mi do a in treatment).
vincent gallo mi ricorda un'altra faccia inquietante, quella di stefano cassetti.

siouxsie a villa arconati (happy birthday hong kong garden)

non pensavo fosse un tale evento mondano: potenza del revival degli anni 80, suppongo.

non fu così infatti, per concorso di folla, al cavernoso concerto dei creatures del 15.03.99 al rainbow – che peraltro resta il mio concerto di siouxsie preferito (infatti i banshees li avevo visti solo il 10.10.91 al city square – concerto di cui non ho memorie precise – mentre p., beato lui, era sotto il palco al parco delle basiliche il 19.07.82… che bello ricostruire tutte le date grazie alla gig history!)

anche ieri sera comunque, nonostante il suono fosse pessimo, alla fine si sono fatti strada sia la vibrazione tribale sia la gotica grandeur che sono i tratti distintivi della susanna che amiamo.
su uno sfondo di veli e stagnola cangianti, inguainata in una tutina space age nera e argento (molto più bella di quelle di ostia – anche qua – e di pisa; più simile a quella di liegi),  ha fatto sfoggio di un’invidiabile forma fisica; da un paio di movimenti mi sono fatta l’idea che ella pratichi lo yoga, chissà. fascinosa silhouette da lontano, da vicino per fortuna dimostra la sua età con una ruvidezza punk che non si sogna di abbandonare.

setlist imprecisa:

they follow you
about to happen
here comes that day
dear prudence
christine
happy house
nightshift
hong kong garden
drone zone
loveless
if it doesn’t kill you
into a swan
israel
arabian knights
spellbound

come ho iniziato l’estate

domenica 22 mi sono aggirata per firenze, con estrema precauzione dovuta al caldo feroce (io e m., difficile immaginare due persone più vessate dal caldo – p. non c’era avendo preso come scusa alquanto originale il fatto di doversi recare nel nord del congo, dove fa meno caldo), tra vaghe memorie scolastiche (gita scolastica e nozioni scolastiche) non confermate dalla realtà, un certo senso di oltraggio davanti a un culto della moda griffata che neanche a milano (sottolineo), orde di americani che io, non essendo stata in america, non avevo mai visto tanti tutti assieme.  ora, questo ci stava anche bene visti i motivi dell’escursione (di cui poi), ma non ho potuto non pensare alla fallaci, al suo ormai proverbiale sdegno contro gli immigrati accanto al duomo.  a parte che di immigrati l’altro giorno ne ho visti pochini (spero stessero facendo la siesta, sarebbe stata l’unica cosa furba), a sfigurare la città storica, anche per chi non voglia museificarla, direi che sono le insegne della boutique monomarca chanel in piazza della signoria e le orde di turisti.  tutte cose forse in linea, a distanza di secoli, con la ricchezza di firenze, il commercio di tessuti ecc., si potrebbe anche dire.  eppure il lusso nuovo (l’alta moda, i viaggi «culturali» di massa) ha una connotazione per me così disagevole, dal punto di vista costume/morale, che non riesco a dare una valutazione positiva di tutto ciò.

forse per questo non ho fatto neanche un po’ di shopping, né ho avuto voglia di farne, ottimo.

tra gli americani riparati al giardino di boboli, tuttavia (in centro a firenze bisogna pagare 10 euro anche per trovare uno straccio d’ombra, questo la dice lunga), c’era un anziano signore che ha suonato soavemente la chitarra per tutta l’oretta in cui ci siamo schiantati sul praticello, e ha pure canticchiato un blues.  com’è come non è, era il roadie che accorda la chitarra a neil young, riconoscimento effettuato da m. ché io non sono fisionomista.  ny era l’americano (ok, canadese) per cui ci siamo recati a firenze in the first place, pieni di speranza in un concerto il più elettrico possibile, cosa che si è verificata al di là delle più rosee aspettative.

setlist

sono una signora con un certo contegno e per farmi venire i brividi ai concerti ci vuole minimo roba così:  la versione cattiva di hey hey my my 

foto del concerto su flickr: qui e qui. il totem dell’indiano non l’avevo visto, ero un po’ lontana, ma il palco così ingombro, con gli enormi riflettori da cinema su stativo, la batteria al centro e il grande ventilatore, mi è piaciuto.

il pittore sul palco è eric johnson  (quanto costerà comprare il quadro out of the blue?)

chi è in grado di scrivere un paragrafo ispirato sull’incandescente chitarra younghiana per favore si palesi.  io anche oggi ho bevuto troppo caffè shakerato, la droga dell’estate per chi ha la pressione bassa.

sempre per la serie senonsonsessantenninonlivogliamo, ammetto inoltre di aver ceduto al richiamo degli esosi biglietti per tom waits a milano. speriamo bene.

la settimana

iniziata lunedì con il concerto di richard thompson, bello e ortodosso e professionale come ci si poteva aspettare (ma quanto poco folk!), si è conclusa con hey girl! della societas raffaello sanzio a uovo. (l’ha visto anche il new york times, con cui sono abbastanza d’accordo, se non fosse che una unrelenting grimness per me difficilmente è uno shortcoming.)

certo, per quanto il crescendo percettivo dello spettacolo non lasci indifferenti, a un certo punto si accompagna a una rilettura di stereotipi (testo di romeo e giulietta proiettato, donna nera incatenata, tacchi alti) che non mi ha conquistato – mentre mi piace quando la ragazza diventa un po’ bionica, alla fine, interagendo con elementi metallici, frastuono, laser.

invece la prima parte, dal risveglio-nascita alla vestizione allo stridente contrasto olfattivo profumo-telo strinato (ma se ne andrà un flacone di chanel n. 5 a ogni spettacolo? o che cos’era?) all’uso del colore rosa, mi ha preso assai.

(e per il resto della settimana? bleah)
 

nel salotto di jonathan richman

sconcertante, questa primavera di icone anni settanta che scorrazzano per milano (tom verlaine prima, e lunedì c’è richard thompson, mi raccomando).

jonathan richman si è piazzato al piano nobile della casa 139 (martedì 6) a fare il suo delizioso spettacolo la cui componente cabarettistica, nello spazio ristretto, ha preso del tutto il sopravvento: complice il pubblico italiano sempre tendenzialmente caciarone (absit iniuria, nella mia esperienza è un dato di fatto) e il continuo battere le mani tutti insieme, si sono un po’ perse le tracce del coté malinconico a noi più caro nell’opera richmaniana.  (una canzone doveva partire a richiesta, e per uno che gridava hospital ce n’erano 10 a invocare ice cream man, che per di più è stata eseguita quasi tutta in italiano e parlava di uno spaventoso gelataio con i baffi.)
poi, per l’appunto, c’è il fatto della lingua: adorabile lo stralunato – ma non privo di competenza, tutt’altro – plurilinguismo richmaniano, evidentemente rinfocolato dalla cena a base di pizza, però fare metà concerto in italiano non rischia di semplificare un po’ troppo? (così, tanto per rompere.)
l’omino con il viso da anziano clown, gli occhi spiritati che ti fissano inquisitori e le mani tozze agillissime sulla chitarra, the man who made the silly things serious and the serious things seem silly, si accompagna ancora al batterista tommy larkins come in tutti pazzi per mary, lui pure invecchiato benissimo, complimenti.  il loro show accuratamente lo-fi, stilosissimo eppure così amichevole, è da non perdere (magari la prossima volta facciamo a casa mia, così cantiamo le canzoni tristi e quelle più rock, visto che con ballate e pezzi comici siamo in pari.)

einstürzende neubauten all’alcatraz 10.4

visto spesso dal vivo con i badseeds, finora mai nel suo gruppo, blixa bargeld con questo taglio di capelli, le guanciotte e l’abito scuro mi pare una sacerdotessa dada, un custode dello spirito delle avanguardie del novecento, e gli oggetti industriali da percuotere sono altrettanti oggetti di scena; bello il palco con i lampadari rossi, sembra più di essere a teatro che a un concerto (lo conferma il penultimo bis, un’improvvisazione sulla base di istruzioni pescate da un sacchetto).
avevo avuto il buonsenso di non aspettarmi un concerto «pesante», dunque mi è piaciuto, nonostante siano rari i momenti in cui diventa davvero possente.  prevalgono le ballate, e il buonumore.  tuttavia alexander hacke è un vero rocker e suda tantissimo.  tutto fila via, ecco, liscio.
di gente ce n’era, compresi alcuni giovani goth del terzo millennio. i giovani tra l’altro fumano, e io per non farmi notare non mi sono lamentata. alcuni giovani pure chiacchierano durante il concerto, e lì non mi sono lamentata perché le più vicine a me erano due signorine che parlavano piuttosto appropriatamente tedesco. il merchandising come al solito va a ruba, tant’è che il giorno seguente, entrando da h&m, ho incrociato una ragazza con la mia stessa t-shirt.
(l’esperto si è preso la registrazione del concerto, nonostante avesse fatto lo stesso anche due anni fa – io ormai so che uso di più la maglietta.)

ho visto tom verlaine

e mi è sembrato uno spettro, alto e massiccio ma un po' informe, i vestiti neri ma sbiaditi, i capelli incolori, il viso diafano con il nasino all'insù e le palpebre livide, le iridi azzurrissime appena intraviste perché quando alza gli occhi nel cantare guarda in alto a destra mostrando solo il bianco.  la musica della collaborazione con con jimmy rip è liquida, io la chiamo musica delle praterie.  le canzoni sono belle, la maggior parte non le conosco, ma ho sentito una versione lunga di words from the front. nella voce c'è ancora quel singhiozzo un po' straziato.
io e tom verlaine abbiamo lo stesso compleanno, e solo 18 anni di differenza.
all in all, tuttavia, un concerto per maniaci della chitarra – 7 aprile, milano, musicdrome (è il transilvania senza più le pietre tombali, peccato).

poi ho visto into the wild e non è un paese per vecchi, altri spazi americani.  tom verlaine almeno ha la chitarra e non il fucile.  poi leggo american gods. finora anche shadow è disarmato.