vestiti come i beatles in un’arena rossa un po’ televisiva, dalle luci raffinate, le cose lampanti sono: che kapranos non ha assolutamente la voce dei dischi (neanche l’accento scozzese, delusione), e che l’accelerazione applicata alle canzoni per ottenere un concerto tirato non fa loro molto bene – se ne avvantaggiano solo i superballabili take me out, michael, this fire suonata in chiusura (certo non la mia preferita dark of the matinee, usata come sottofondo per la scenetta di presentazione della band). dopo un concerto divertente, né più né meno, da rivalutare i meriti della produzione negli album dei ff, e la casuale benedizione per cui la musica, diceva wilde, «ci crea un passato che ignoravamo, e infonde un senso di dolore finora ignoto alle nostre lacrime». indipendentemente dalle intenzioni dei musicisti forse, e per fortuna.
dal vivo
editors
(milano, rainbow, 10/11)
hanno proprio un brutto nome, tanto che li avrei sicuramente trascurati, se l’esperto non avesse manifestato un’incrollabile determinazione ad andare al concerto. allora ho ascoltato un paio di canzoni – ma non sono un po’ interpol, ho detto – sono molto meglio, ha risposto (e ti pare che non aveva ragione). siamo andati a vedere; il chitarrista aveva una maglia a righe orizzontali e il cantante – un magrolino – una camicina alla ian curtis (nera con le mezze maniche). sono giovanissimi. è bello vedere un gruppo al primo disco, è semplice: il successo del set non si affida a complicate operazioni di catalogo (quale faranno, questa l’hanno arrangiata diversa, quell‘altra non la suonano più) ma veramente alla musica. e c’è un sacco di energia, qui (it keeps me awake, but i don’t mind). quando le hanno suonate tutte, comprese un paio di b-side, il concerto è finito. l’ultima canzone è quella che piace di più a me, fingers in the factories.
teenage fanclub
al rainbow, venerdì 21: strano pubblico (mai visti tanti adulti imitare un chitarrista. i fan storici sono più uomini, c’è chi proclama che i tf sono il suo gruppo preferito insieme ai charlatans – non è una frase insensata?). and melancholy delivered by such a warm, steady beat. bel concerto, p. e l. non convinti, dicono che l’uso dei cori è stucchevole e fa rock cattolico (a questo punto ho cercato di tener nascosto il titolo dell’album d’esordio dei tf, ma senza successo, ahimè). a noi ragazze è piaciuto molto.
you can’t get a sun tan on the moon
but i wouldn’t mind a holiday there.
nel 1969 ero al mare, mi dicono. ieri pomeriggio l’ipod ha suonato la canzone dei love and rockets. ieri sera ho ascoltato i racconti di briganti di alfonso santagata su un fazzoletto di prato urbano dall’inaspettato, fortissimo odore di menta, che al buio pareva di essere in lucania. mai vista una luna così a milano (quasi mai).
(alt. title: la luna del brigante)
sto ascoltando la musica nelle strade
allo scopo di far tornare in qualche modo la temperatura percepita vicino alla serata di sabato scorso, in cui les anarchistes hanno suonato a cassano d’adda circondati da un freddino che (complice anche, forse, un inconfessato sentimento «siamo tutti londinesi») induceva a nutrirsi di pesce fritto, patatine e birra. il disco è molto interessante, a dispetto – mio snobismo alquanto gratuito – della presenza di collaborazioni illustri e della ballad of sacco e vanzetti. a chi poi, come me, cercasse nei cd degli anarchistes più che altro tracce dei loro bellissimi concerti (non viceversa, ma non credo sia per forza una cosa riduttiva) va segnalato che sono qui immortalati a las barricadas e, finalmente, l’inno a oberdan.
è estate e i festival continuano
questa settimana mi sono procurata non mezz’ora di socialismo tascabile ma un’ora e mezzo di socialismo barricadero. i gang non sono il tuo genere, mi si dice. sarà, ma suonano così bene che nel pur orrido mazdapalace a momenti mi si scioglieva il solito cinismo (o forse era per il caldo che faceva). non li avevo mai visti dal vivo, mi sono divertita molto e ancora prima che lo dicesse marino a proposito di i fought the law avevo pensato che quella era veramente musica popolare – il concerto mi stava riportando vicino tutto il rock più o meno classico o folk amato anni addietro, da springsteen ai pogues (oltre ovviamente al punk «costruttivo», i clash – strummer, peraltro invocato, dove suonano i severini aleggia per davvero), e bastava, non imitava e non rincorreva, era quella musica – cosa veramente insolita tra i gruppi italiani.
n.b. ricordarsi di andare tardi alla festa di liberazione, per evitare i penosi gruppi che aprono e le tentazioni di consumismo equo e solidale.
che ci facevo
al mi ami, fra tanti giovini amanti delle spillette? avevo bisogno di mezz’ora di socialismo tascabile. dopo gli skiantos e i cccp, il rock concettuale emiliano necessitava di un aggiornamento, e l’ha avuto. io a sentire gli offlagadiscopax mi commuovo, anche se l’esame di seconda elementare l’ho dato nel 1974 (ma ero avanti un anno), e non per indulgenza nostalgica – piuttosto forse perché, a dispetto di quelli che «ci hanno tolto davvero tutto», è giusto ricordarsi che ipotesi di convivenza basate sulla giustizia sociale una volta se ne facevano anche in italia, ecco. e tenersi il proprio strazio, e ballarlo, financo.
l’atmosfera al parco del pini era assai piacevole, e le novità indie italiane suppongo interessanti, ma è mancato il tempo di dedicare i padiglioni auricolari alle cuffiette a disposizione per l’ascolto (è finita che siamo tornati a casa con il cd di modern dance dei pere ubu).
altre cose buone che possono succedere a milano
quando si va a una festa di compleanno, non sempre i posti sono orrendi e la musica atroce. l’altro sabato il posto era un cortile di una cascina in città, tutto pieno di lumini, e la musica era lo ska dei onedroppers. non c’era più niente da mangiare, ma taanto jamaican boogie.
di musica
«steppin’ out di joe jackson aveva già in sé il germe di tutto il drum&bass» (paolo minella, che fa la migliore trasmissione musicale di radiopopolare)
l’estetica dell’ipod è radiofonica più che walkman-derivata (io sul tram)
stasera, tendenza all’ascolto compulsivo della marche pour la cérémonie des turcs di lully (colonna sonora di tous les matins du monde) dopo aver visto salmagundi del teatro delle albe.
tra i mille riferimenti contenuti in uno spettacolo apparentemente semplice – quasi banale nel scegliere il registro grottesco e allegorico – sono stata inspiegabilmente travolta dal rimando al barocco (inspiegabilmente mica tanto, in realtà è una ricaduta. ci sarà mica un dvd del molière di ariane mnouchkine, mi chiedo ora).
cari miei rocker e musicisti del cuore,
volevo dirvi: piantatela di venire a milano a fare showcase pomeridiani e piccoli concerti in locali intimi dove vi si vede da vicino e vi si può persino parlare. basta, è troppo. dopo julian cope che fa canzoni da peggy suicide sul palco della feltrinelli, liverpudlian vestito da cowboy tenebroso spalleggiato da una gigantografia dei beatles che bevono caffè, intento a ipnotizzare il pubblico battendo sul pavimento, mi ritrovo emotivamente provata.