l’ex ospedale psichiatrico

paolo pini di milano, ad andarci solo di sera per gli spettacoli (come la lettura da elsa morante del teatro delle albe la settimana scorsa), resta un luogo misterioso, accogliente come un parco e inquietante come una struttura dismessa. questa volta si entrava nella ex mensa, un padiglione piastrellato che sa di muffa.
letto negli stessi giorni il racconto che dà il titolo a mandami a dire di pino roveredo.

poi ho anche visto constantine, che un po’ c’entra e un po’ no – se lo vedi fino alla fine aspettando le apparizioni di tilda swinton, vieni ricompensato dal lucifero («lou») dai piedi neri interpretato da peter stormare.

la societas raffello sanzio

per me quest'anno è arrivata insieme all'influenza domenica pomeriggio, quando ci siamo immersi nei video sulla tragedia endogonidia (autori), e se n'è andata quando sono risorta dal virus martedì, con il concerto dei cryonic chants e scott gibbons.
non penso però che fosse tutta colpa del raffreddore e dell'ottundimento da calore pomeridiano – probabilmente neanche del formato minidv che si sgranava sullo schermo – se i video mi hanno deluso: pareva che quel che doveva essere sconvolgente si appiattisse, mettendo in evidenza costumi alla moda e momenti di nudo o allusioni sadomaso, che, ehi, rispetto ai precedenti della societas sono praticamente dettagli fashion.  sarà anche che sintetizzare spettacoli così forse non vale la pena (dal vivo non ne ho visto nessuno, e non capivo nulla).
nel concerto, invece, oltre le ovvie reminescenze di tutta l'elettronica-industrial-ecc. che normalmente non entra negli auditorium paludati, ancora la severità e il ritmo del voyage au bout de la nuit – non la grandiosità industriale come la guerra di quelle macchine, ma quel bianco e nero, il mondo sonoro insieme meccanico e organico, confine attivato in questo caso da 4 signore vestite come delle sorelle brontë in lutto (e qui sì soccombo all'irresistibile particolare costumistico).
mi chiedo perché non abbiamo potuto avere il capro vivo sul palco del dal verme. mah.

qui c’è qualcosa che non va

se la serata su beckett di giovedì scorso alla cineteca italiana parte funestata da guai coi microfoni e una copia del documentario di john reilly veramente pessima (si vedeva e si sentiva male, poi a un certo punto l’audio si è sfalsato dal video restando in ritardo per dieci minuti buoni; gli errori nei sottotitoli invece consideriamoli routine). no, così, per lamentarsi un po’. poi io sono uscita perché avevo fame e avrei sofferto troppo a rivedere un’altra volta film.
fittissimo l’intervento di luca scarlini, commovente comunque il documentario che – a chi ha resistito a una parte piena di professori irlandesi che rivendicano l’irlandesità di b. e a un’altra parte lunghissima sulla ricezione americana di b. – regala le interviste con un paio di vecchietti francesi di roussillon che hanno conosciuto b. durante la guerra, e alla fine qualche rara moving image di b. stesso: mentre supervisiona la versione americana di what where e mentre, quasi spiato (da chi?), si addentra in un cortile, visto di spalle, con una strana andatura dinoccolata.
il centenario in italia.
il mio link beckettiano preferito. (potrebbe diventarlo per chiunque senta la necessità di tenere sull’ipod una versione di krapp, per qualsiasi evenienza.)

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(inside, my heart remains the same)

sorprese milanesi: i tuxedomoon lunedì scorso alla rassegna «suoni e visioni» della provincia, a prezzo modico, senza stress da prevendita. bizzarro, come un déja vu ma di natura radiofonica, ritrovarsi nel 2006 a sentire cotale gruppo presentato da enzo gentile (come del resto la sera prima, a radio popolare, sentire ernesto de pascale presentare donald fagen – corsi e ricorsi acustici, voci memorizzate in età impressionabile).
tutt’altro che nostalgici tuttavia – né c’era da aspettarsi niente di diverso – steven brown e compagnia.*
– assaggi del disco più recente sul sito della crammed, che sfoggia anche un gustoso video live.
– qualche canzone remixata qua, un vecchio pezzo live qua.
– ignoto in rete georgios kakanakis, l’autore di un accompagnamento video piuttosto bello (fatto quasi tutto in diretta con una camerina e vari fogli, pennarelli, una vaschetta d’alluminio, una lampadina…)
– reperti domestici, insufficienti: un vinile piuttosto consunto di half mute; due amate cassette di holy wars e suite en sous-sol.

* o piuttosto blaine reininger e compagnia, visto che sul palco il nostro (già visto nei paraggi qualche anno fa in uno spettacolo di santagata – qua ormai non si fa che linkare il suo sito) ha gigioneggiato in un italiano improbabile.

questo secondo eduardo di santagata,

quali fantasmi, fatto di tre atti unici, è più farsesco e meno metafisico dell'altro spettacolo, eppure risulta lo stesso inquietante perché usa questa caratteristica per giocare con la messa in scena e le finzioni (e più scarni sono i costumi di scena più grande è la finzione, gioco che arriva sempre pericolosamente vicino alla morte – questo nel primo e nel terzo atto, mentre il secondo ragiona più lievemente sulla vita parallela che ci si costruisce con le invenzioni, con la poesia, con l'illusione di un nuovo amore).

ieri ho fatto

– una cosa furba, andare a vedere un eduardo di santagata al crt.  ce ne sarà un altro a marzo, e perché negarselo. questo voci di dentro era cosa di fantasmi domestici, fantasmi in cucina per così dire, non solo quelli dei sogni dei protagonisti ma quelli evocati da pochi piccoli oggetti scenici di grande concretezza, come le teglie per i maccheroni (quelle di alluminio), un pentolino per il latte, le vecchie cucine a gas (i cui sportelli del forno formano per lo spettatore di oggi una parete di piccoli schermi), due sfolgoranti spicchi di luminarie da festa patronale.
– una cosa estremamente poco furba, di cui dirò una volta chiarito l'esito ancora incerto. (per ora definiamolo un bucato molto distratto.)

cos’è?

Caveticketè un biglietto di un concerto, sì.  l’ho trovato pochi mesi fa per strada, non lontano da casa; l’ho raccolto non solo perché è di nick cave ma perché sapevo di averne uno uguale da qualche parte, e di essere quindi in grado di ricostruire di quando fosse.  stasera ho ricostruito: 24 maggio 1992 (dietro c’è lo stesso timbro, di un organizzatore milanese).  caro qualcuno che hai perso questo caro ricordo (ci sono i segni delle puntine usate per tenerlo appeso), nonché nostalgica prova che una volta i concerti costavano 27.000 lire, se lo rivuoi, scrivimi. se no, lo tengo io. (è vero che il mio è più pulito e ha un numero molto più basso, ma devono avermi strappato male la matrice, perché a nick manca un pezzo di testa.)

la mano (de profundis rock)

riporta lo spettatore del teatro delle albe alla gloriosa alcina – ermanna montanari e le sue multiple personalità/voci protagoniste di una scena allucinata dove ogni altra presenza è fantasma. bene. un po’ meno bene, questa volta, l’intervento sonoro del maestro ceccarelli: pardon, ma il rock, dov’è?*  ho avuto questa reazione un po’ contenutistica (certo di scarso interesse drammaturgico), un po’ fanzinara, da finta specialista, ma insomma, per spiegarmi perché lo spettacolo non mi abbia del tutto compreso (a teatro faccio così, di comprendere io m’importa poco, il viceversa è necessario): la musica non è bella. non è «spiritualmente» rock, e nemmeno rock sperimentale come vorrebbe. forse è rock abbastanza per scandalizzare l’anziano spettatore del teatro grassi che ha pensato bene di inveire ad alta voce nella prima parte dello spettacolo (prima di andar via), ma certo non per me.  dico, vogliamo essere devastanti, come minimo – dico minimo – ci voleva thurston moore (ma dai, ci accontentavamo anche delle officine schwarz). non quella cosa tendente al metal, che contribuisce assai a rendere monocorde uno spettacolo molto intenso ma senza climax (forse per reazione, per me la parte più bella rimane quella meno esasperata, il primo monologo e lei che gira gira su se stessa, emergendo dal buio, immaginando… le clarisse col mascara).

* nello spettacolo è usato assai meglio un altro oggetto pop: la testa di topolino.

il primo live dell’anno

già che si è qui a struggersi lavorando come asinelli nella metropoli lombarda, perché negarsi una serata a prima vista un po’ senile ed elettorale, in realtà più che altro gradevolmente milanese – enzo jannacci non l’avevo mai visto dal vivo; martedì sera accompagnava dario fo nella sua tragicomica dichiarazione di amore-odio verso la città di cui vuole diventare sindaco, e mi è sembrato così bravo e commovente – con la sua ottima band – che alla fine ero contenta di aver trovato posto solo seduta per terra sotto il palco.
quanto alla candidatura del giovane ottantenne, che mi ha sempre lasciato assai perplessa, forse l’altra sera ci ho intravisto un senso: una specie di forza della disperazione, la possibilità di «votare un pazzo», come dice lui, in contrasto con le misurate proposte dei concorrenti candidati, che non faticano ad apparire inadeguate se davvero ci si immedesima un po’ con gli enormi problemi di questa città. (sì, sto prendendo troppo seriamente le primarie.)