e per il nostro bollettino degli scomparsi

man mano che invecchio mi toccherà dotare il blog di una pagina di necrologi (e in ogni caso fare più post per separare un necrologio dall'altro). l'ultimo sarà il mio, postdatato come i coccodrilli.

oggi mi ha intristito la scomparsa a 63 anni di silvano cavatorta, fondatore del festival milanese filmmaker, con cui avevo collaborato anni fa; abitava qui vicino.
anche a conoscerlo poco si sapevano delle cose di lui: spiritoso, fumatore, colto, ex (o mai) architetto, di origini della provincia di parma come dice il nome, collezionista di libri e di ceramiche. magari mi sbaglio, ma amo pensare che fosse suo il delizioso titolo del libro ti conosco mascherino.

loretta strong di copi

sono andata a vederlo ieri all'outoff nella messa in scena di marcido marcidorjs e famosa mimosa – non avevo mai visto né loro né copi (pare che a teatro ultimamente io riesca a vedere solo spettacoli en travesti). 
l'immobilità dell'attore letteralmente legato alla sua astronave e una performance tutta gridato parossismo sono le caratteristiche di questa versione: interessante, ma forse un po' della leggerezza del testo così svanisce…
loretta strong appartiene allo stesso universo del rocky horror, tanto che sarebbe interessante sapere se copi lo conosceva (il musical è del 1973, la sua pièce del 74, il film del 75) o comuunque approfondire le ricognizioni sulla fantascienza come scenario della sessualità più anarchica.

«Cosmonaute intrépide, cannibale, tour à tour tortue et femme du monde, sa vision de l'extérieur du satellite coïncidera toujours avec son intérieur: même enceinte, elle sera toujours à l'intérieur et a l'intérieur de quelqu'un. de qui? Mais n'en disons pas trop: la mémoire est le privilège du seul spectateur.  Loretta Strong, c'est peut-être vous.»
Copi

«Nu et vert, nu comme un ver, beau comme un ange du Greco, il boitille sur un seul escarpin, et ses cheveux dansent. Sous les pas de Copi, le sol se dérobe. Depuis longtemps, Copi a quitté notre terre ferme; il l'a quittée partiellement. Il n'est jamais en un seul endroit à la fois, il est avec nous, et sur la planète qu'un jour il a découverte, que depuis il explore, il décore sa planète intérieure, son île au trésor.»
Colette Godard, Le Monde, 1974

«In Copi, nel suo teatro che solo gli accademici possono ancora definire semplicemente “surrealista”, … c'è non solo l'insegnamento di Alfred Jarry, ma la trasgressione, ben più profonda, di tutto ciò che il ’68 ha rappresentato: la psichedelia, l'utopia, l'erranza, la rivolta contro ogni limitazione della fantasia, l'eccentricità dei riferimenti culturali, la follia come regno dell'immaginazione.»
Tondelli, ora in un weekend postmoderno

in questa monografia, loretta è «l'opera più infantile di Copi».

enrique vila-matas va a mangiare le ostriche con copi in parigi non finisce mai.

zampe di seta

casomai vi venisse la curiosità di sapere se lo slot drive del computer legge i minicd:

1. la risposta è no

2. per far riapparire il minicd incautamente inserito basta scuotere delicatamente il portatile a testa in giù.

Silk skin paws

una chitarra color pistacchio, due native digitali e il bello della new wave

oggi riso in bianco e streaming del disco nuovo dei wire dal sito del guardian.

martedì 22 al bloom di mezzago (dove non andavo da quasi vent'anni, me lo ricordavo tutto diverso e mi sa che era diverso – uno spazio tipo capannone mentre ora è molto più accogliente) il concerto è stato si può dire complementare a quello che vedemmo nel 2003 (agli albori delle mie ricerche sulle rockstar attempate): allora più breve, tiratissimo, con ancora bruce gilbert alla chitarra (implacabile seppur veramente anziano); stavolta con più spazio per collegare le varie anime della musica dei wire (punk, dark, divagazioni strumentali, pop: kidney bingos!) la compresenza delle quali – nonostante ci siano ancora, decenni dopo, critici bacchettoni che non lo capiscono – è la sostanza stessa di quel che si suole chiamare new wave.
stavolta ero abbastanza vicino per vedere la luce vispa negli occhietti azzurri di colin newman (da queste parti amato anche in quanto produttore di if I die… I die dei virgin prunes).
come da manuale, buzz in the eardrums alla fine (non la canzone, il rumore che ti accompagna fino a casa).

ah, i «bambini» cui accenna la recensione di rockol erano in realtà due toste dark lady della prima media (la piccola m. l'avevamo già incontrata nel salotto dei residents), presissime dal concerto senza mollare mai i loro telefonini. il pubblico è stato gentile e, su richiesta del nostro amico zio di m., le ha lasciate passare davanti. ma diciamo pure che c'era una platea di posapiano: non che sia nostalgica del pogo, ma neanche un saltello durante i pezzi più veloci… bah.

utile ricerca su youtube: la band al rough trade east lo scorso gennaio (con lo stesso chitarrista di questo tour, tale matt simms)

la compagnia della fortezza in hamlice

«saggio sulla fine di una civiltà» che ieri sera a milano si è accalcata all’hangar bicocca (1200 persone secondo gli organizzatori – e secondo la questura?  ci sarà pur stata, essendoci i carcerati…) provocandomi anche qualche piccolo attacco d’ansia da folla, durante l’attesa nell’atrio e poi nel prologo allo spettacolo, in un’anticamera ancora con le luci accese dove il pubblico era disgustosamente costretto a guardare se stesso mentre veniva perseguitato dalle risate di un amleto isterico e intanto cominciava a conoscere i personaggi della recita: molti issati su stivaletti fetisciosi, a cominciare dal coniglio (invece non trovo foto del bellissimo ragazzo con la gonnellina di cartapesta), altri in pianelle da servitore di corte. la corte è una corte settecentesca da amadeus, broccati pizzi e belletti rammentano in effetti le fiabe impolverate alla lindsay kemp. ma quando si aprono le porte dell’hangar vero e proprio dove si innalzano i palazzi di kiefer, ogni spettatore può trovare il proprio teatrino – più amleto, più alice, più amleto –, assembrarsi attorno alle attrazioni maggiori riprendendole pazzamente con il telefonino o vagare sperduto sotto le macerie. parole e musica rimbombano in un frastuono effettivamente apocalittico, ti rassegni a coglierne lacerti (magari leggendo parole di shakespeare sotto i tuoi piedi) e alla fine anche quelli si sbriciolano – restano le facce.
tutto molto nelle mie corde, ma viene il dubbio che se anche gli spettacoli dei detenuti oggi parlano di alice nel paese delle meraviglie… siamo davvero alla frutta?

recensioni di rappresentazioni precedenti (ci trovate pure i discorsi sensati sul potere e sulla libertà):
krapp’s last post
delteatro

l’estate dell’85

[per ernesto de pascale, 1958-2011]

l’estate dell’85, dunque, avevo diciassette anni.  davo l’esame di maturità.  andavo per la prima volta a londra, sola con un’amica, con l’alibi conservatore di un viaggio studio.  vivevo in un paese piccolo, terminavo il liceo in una città piccola, non avevo una vita sociale degna di questo nome.  attendevo di cominciare l’università in un concentratissimo buco nero di aspettative, frustrazioni, estasi adolescenziali.
ascoltavo la radio.
scoprivo tutta la musica che c’era perché me la raccontavano.  non esisteva a priori, nella vita quotidiana non ne sentivo da nessuna parte.  se la prima storia musicale a catturarmi era partita dalla morte di john lennon e la seconda narrazione sul tema era uscita dalla stilosissima scatola sonoro-visiva di mr fantasy, la terza affabulazione musicale ad agganciare qualcosa dentro di me monopolizzando emozioni cavate da un nucleo inesplorato fu raistereonotte. [e qui scusate se divido il post ma ho intenzione di dilungarmi.]

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quanto poco mi è piaciuto il museo del 900 di milano

(e qui autorizzo Liquida a mettere la faccina imbronciata)
Museo del 900 fatta una piccola coda durante la quale abbiamo debitamente acquistato un libro di ricette africane, venerdì pomeriggio io e p. ci siamo addentrati in un museo ancora affollato dall'ingresso gratuito. la collezione l'ho vista volentieri, ci mancherebbe – in particolare, direi, i boccioni – ma la delusione riguardo a spazi e allestimento è stata grande: capisco che il palazzo è lungo e stretto, ma sembra di aggirarsi tutto il tempo in corridoi, sottoscala e disimpegni dai loschi tramezzi imbottiti, dove le opere sono disposte senza grandi idee, a parte alcune nicchie scure che valorizzano meglio certi pezzi. il discorso metastrutturale (conservazione delle colonne, scala pseudo-guggenheim) risulta goffo e angusto. si tira un po' il fiato solo nel grande spazio dedicato a fontana, che da corridoio assurge perlomeno a foyer (peraltro funestato da scale mobili da centro commerciale che meglio starebbero state alla stazione centrale, dove invece, com'è noto, si sono quasi estinte).  bello il panorama sulla piazza e gli scorci di palazzo reale dalle vetrate laterali, ma non proprio una ristrutturazione godibile e/o moderna, secondo me.

berlino secondo zamboni

Zamboni e chi lo sapeva che massimo zamboni scriveva libri, se non ci fosse stata venerdì una piccola pigna di il mio primo dopoguerra al libraccio (remainder, temo). l’ho preso irresistibilmente incuriosita dalle gesta del nostro nella kreuzberg delle case occupate, 1981, e devo dire che non sono stata delusa. ci sono, la curiosità urbana e storica, lo spiazzamento dell’italiano all’estero, il fascino delle rovine e del cambiamento, l’occhio critico e affettuoso insieme. nella scrittura qualche tentazione lirica, qualche tentazione criptica, ma non esagera quasi mai (esagera un po’ con la pizzeria, ma questa è un’altra storia). musica c’è, ma non sovrabbondante. lo metto nello scaffalino sulle città.

the children’s book di a.s. byatt

Children's bookè un libro ambizioso, lungo e deludente: corale al punto da smarrire i protagonisti per strada disorientando il lettore, salta da un periodo storico all'altro con enciclopedici riassunti  di anni di vita sociale e politica inglese, è afflitto da preziosismi stilistici fastidiosi e per di più dà al suddetto lettore già stanco una cruenta mazzata finale sprofondandolo nelle trincee del 15-18.
d'altro canto è un libro ambizioso, lungo e interessante: si addentra negli ambienti fabiani e artistici di fine ottocento, spazia dall'era vittoriana alla prima guerra mondiale con tanto di suffragette (che ben mi ricordavo da un appassionante sceneggiato tv inglese, penso fosse questo), racconta l'esposizione universale di parigi che ti pare di esserci, la nascita della letteratura per ragazzi e del victoria and albert museum, e fornisce ulteriori motivi per gite da effettuarsi a monaco di baviera e a dungeness.
(se però vi secca dover aprire un atlante per rendere leggibile la fuga di un personaggio nel sud dell'inghilterra, questo romanzo non fa per voi.)