il sacro segno dei mostri

di manfredini non sarebbe proprio lo spettacolo da scegliere per svagarsi (rispetto a una situazione familiare decisamente pesa), vero?  eppure ha quel suo modo di strapparti un sorriso nella devastazione, non si sa mai se censurare il riso per rispetto del personaggio o indulgervi sperando in una catarsi.
avevamo degli assurdi posti d'angolo in prima fila (il 5, sera della prima a milano), che si sono rivelati peraltro vicini in modo quasi imbarazzante all'angolo in cui dm interpreta la signora senza gamba – e sulla trama non dico altro.

quote, più o meno:
«oggi sono felice. erano quattordici anni che non mi sentivo così felice. sarà un falso allarme.»

milano lo scorso weekend

presentava questa fitta concentrazione di concerti britannocentrici.

venerdì: nella rassegna mito, london sinfonietta suonava sergeant pepper. e fin lì. però è stato tenuto accuratamente  nascosto, direi quasi con determinazione, che sarebbe intervenuta una fitta delegazione di personaggini quali residents, marianne faithfull, jarvis cocker, beth orton, non-so-più-chi ma soprattutto robyn hitchcock. (ebbene sì, robyn hitchcock ha cantato due canzoni dei beatles a rho, avrei potuto esser lì per la modica somma di 5 euro + biglietto del metrò, e invece non c'ero.)

sabato: art brut al parco, concerto supersponsorizzato, dunque gratuito. è stato molto divertente sentire dal vivo l'originale di mio fratellino ha scoperto il rock'n'roll dei 3 allegri ragazzi morti, solo 3 settimane dopo il concerto dei medesimi.  si è saltellato parecchio.
il batterista lavora in piedi, i  chitarristi fanno due personaggi di tales from the crypt e con la bassista rotondetta è facile identificarsi.  eddie argos ha i colori improbabili dell'inglese di ascendenze mediterranee – somiglia all'attore alfred molina, nota di p. – e ha cambiato le parole di emily kane perché dopo il successo della canzone l'ha incontrata (non è più vero che non la vede da 10 anni e non sa dove abita); citazione di there's a light that never goes out sul finale della medesima.

domenica: david sylvian al conservatorio, per essere lì invece si è dovuto rompere il porcellino di ceramica. scaletta simile a quella di stoccolma. il bassista col kilt.
p. insiste che quelli di sylvian sono concerti belli ma freddi (c'è chi li considera francamente noiosi). ora, è chiaro che tutto questo variare gli arrangiamenti delle canzoni e trattare ink in the well quasi fosse uno standard jazz e ricamare la trama sonora raffinatissimamente e stare del tutto immobili sul palco sarà sì professionalità ma anche timidezza, ogni fan di sylvian lo sa.
pur senza nostalgia (ah ah), perché i pezzi di snow borne sorrow sono ottimi, si viene per sentire la sua voce, e brilliant trees spogliata della religiosità della tromba trova una sua quotidianità, ghosts risorge più eterna che mai (non per ridurre la musica a triviali meccanismi psicologici, ma già faceva  piangere quando non la capivamo, figuriamoci) in questo mondo sonoro di una coerenza ipnotica, mondo che sempre ruota attorno ai suoi poli introspezione emotiva / esplorazione sonora, intensità vocale / curiosità strumentale, e allora viene da chiedersi se l'autonomia di un mondo così (pur ricco di divagazioni, improvvisazioni, tentazioni, ma solo al suo interno) sia una buona cosa.  farci un giro ogni tanto è bellissimo.

acusticamente la settimana scorsa

lunedì, breakfast on pluto di neil jordan con un audio talmente cavernoso che a stento si capivano i dialoghi.
sabato, lupin III il castello di cagliostro con l'audio a un volume tale da uscire tutti (i dieci presenti nella grande sala) piuttosto sordi.
mercoledì, berlin di lou reed, con l'acustica del teatro degli arcimboldi a permettere di apprezzare tutti i dettagli dell'enorme organico presente sul palco, eppure si rischia di emozionarsi meno che ad andare al cinema (se è questo che si cerca): per me personalmente è proprio un po' troppo, il professionismo sovrasta le canzoni, pur bellissime. punto massimo: caroline says II.
da un articolo apprendo che:
– rispetto alla versione eseguita a brooklyn non c'è antony
– reed lo chiama «un film per le orecchie»
– wharol voleva farne un musical
e mi quadra tutto perfettamente.
(sui video di schnabel non dico nulla perché avevo un posto d'angolo da cui non vedevo alcunché, a parte l'ossessivo riapparire di emmanuelle seigner.)

sul concerto di john cale

di lunedì scorso al rainbow, ho da dire che mi è piaciuto di più rispetto all’ultima volta; ne ho apprezzato la compattezza, la mancanza di nostalgie e insieme quegli elementi sonori che in una certa prospettiva sembravano comporre una summa degli anni 70, quelli belli.
ma forse ero io senza nostalgie, senza aspettative di questa o quella canzone (a parte venus in furs ovviamente), senza nemmeno flashback alla primavera di 15 anni fa in cui L – era lei la fan di cale, non io – mi trasportò a bologna a vedere un concerto del tour immortalato in fragments of a rainy season.
io ero qui, a quasi 40 anni, lui era qui, appena compiuti i 65, andava tutto bene.
e alla fine (quando solo io, g. e un dandy dal foulard a pois eravamo rimasti davanti alla transenna, increduli della mancanza di un bis) è apparso sul palco il burbero benefico tecnico del suono ora fidanzato con quella nostra amica dalla quale, parecchi anni fa, comprai gli stivali che avevo ai piedi lunedì sera. non sarà proprio per questo che è stato detto tout se tient, eppure…

la recensione l’ha fatta spider
l’aria l’ha imbottigliata garnant
gli altri presenti potrebbero compilare la set list, così, la mandiamo a hans, no? (ma quella cartacea chi se la sarà presa, alla fine?)

jarvis cocker

Jarvisalbum
giovedì sera ai magazzini generali è stato veramente ultra-cool, non saprei come altro definirlo. (ne volevo dire già ieri sera, ma poi ci è arrivato in casa un amico di p. mollato di recente dalla fidanzata, che cerca di riprendersi organizzando un viaggio in india e gira con un cartone di primitivo di manduria nel bagagliaio della macchina – si è dovuto aiutarlo a bere il primitivo di manduria.)
dunque sono molto contenta che y. mi abbia telefonato per andare a sentire jaaarvis, sia perché io e lei non ci vedevamo da più di un anno sia perché il concerto è stato proprio bellissimo, lui è una magnifica rockstar che ti ipnotizza con i gesti delle sue mani quasi da creatura marfan, altissimo (per cui io, pur essendo vicina, l’ho visto benissimo per tutto il concerto) ed elegante nella sua camicina marrone con la giacca di tweed della moglie (o magari non era della moglie, ma è vero che aveva l’abbottonatura da donna), tanto compassato nelle chiacchiere tra un pezzo e l’altro, da cui si è ricavata una dose oltraggiosa di umorismo britannico per una sera sola, quanto intenso nelle canzoni – tutto l’album solista, comprese le 2 b-side e il brano nascosto – che partivano precisi e impeccabili, scandite da luci a led con lieti motivi retrò da lungomare di brighton.
delizioso l’affetto di jarvis per i suoi occhialoni da ex sfigato – con una faccia così, non vai da nessuna parte se non hai una personalità veramente speciale. un modello per generazioni di imbranati.

bis finale: satellite of love.
jarvcast

1969

è l’anno di nascita di badly drawn boy, visto ieri sera affrontare la sua data italiana per il tour filospringsteeniano di born in the uk con una tale emotività che la gente invece di seccarsi è stata comprensiva.  si è proclamato pissed off perché la chitarra era fucked up, ha interrotto il concerto per andare a fumare e calmarsi, ha detto che eravamo un pubblico splendido, si è dimenticato thunder road prima del ritornello e l’ha piantata lì, se l’è presa perché uno dal suddetto pubblico gli ha gridato get a grip, ha detto che eravamo un pubblico splendido, ci ha raccontato che era distratto perché col tour si perde il compleanno della figlioletta…
per me è il berretto, è impossibile stare sotto i riflettori con un berretto di lana, sfido chiunque a non innervosirsi.
comunque in coda a the shining ha fatto un breve medley con the first picture of you dei lotus eaters, il che per me è valso la serata (astenersi facili commenti malevoli).  quasi quasi gli compravo la tea towel – mai visto un tale articolo come gadget da concerto. (certo è la band meno glamour mai vista nella storia, e se ne sono viste.)

1969, però, è anche il bellissimo disco di julie driscoll ristampato quest’anno, trovato e sentito oggi.

strano martedì

passato lavorando a casa; non esco da più di 24 ore. il fine settimana sfruttato in ogni suo momento per uscire (dal bar del venerdì sera seguito da concerto dei tv on the radio, al sabato con sapore di festival e retorica rock all’idroscalo per international noise conspiracy, damned e stooges, alla domenica in montagna con sole glorioso e piatti valtellinesi) sembra – è – molto, molto lontano.

brian eno

giovedì scorso alla milanesiana ha parlato di quando voleva essere pittore, e soprattutto di arte generativa («generative art refers to any art practice where the artist uses a system, such as a set of natural language rules, a computer program, a machine, or other procedural invention, which is set into motion with some degree of autonomy contributing to or resulting in a completed work of art», secondo philip galanter), dicendo alcune delle cose che dice qui, è stato spiritoso e insomma adorabile.
ho poi scoperto che a milano abbiamo da anni un convegno sull’arte generativa, e il giorno dopo sono coscienziosamente andata alla triennale a vedere un po’ dei 77 million paintings di eno. eno ha il potere di farti pensare che il mondo sia pieno di intelligenza e di bellezza, e che tutto ciò sia semplice nella sua complessità. brian eno, in generale, ha il potere di farti star bene, qualsiasi cosa lui faccia, e di stupirti senza egocentrismo. non dimentichiamo che tra le carte delle strategie oblique una dice «pensa alla radio», almeno nel mazzo tradotto in italiano da gammalibri. non dimentichiamo che vedere l’installazione place # 16 alla chiesa (sconsacrata) di san carpoforo, l’11 ottobre 86 quando non c’erano ancora i blog e neanche internet e se è per questo non avrei avuto un pc per altri 2 anni, mi rimase davvero molto impresso. e soprattutto che il capolavoro di brian eno sono i dischi in cui ha fatto il produttore, e magari anche la peculiarità di aver inventato un tipo di musica insensata da riprodurre su vinile ma perfetta per i cd e la musica digitale, allora inesistenti.
alla luce di tutto questo, gli si può pure perdonare di fare tanta pubblicità alla apple in un momento in cui l’azienda non è esattamente inattaccabile, e financo di essere amico di michel faber, che peraltro ha riscattato la sua lagnosa presenza in quel consesso dedicando la serata a syd barrett. è poi stato cancellato da un intervento fiume di stefano bartezzaghi, e devo dire che mi sarebbe piaciuto non dover linkare lessico e nuvole ma un suo sito personale dove possibilmente ritrovare il suddetto intervento e confrontare l’esperienza di lettura con quella veramente inquietante di sentirglielo leggere.
qui poi bisognerebbe parlare di rebus corporei e di fanny e alexander, se ce la fa d., che c’era, può lasciare un commento…