a new york cambiano macroscopicamente le dimensioni rispetto, che so, a parigi, dunque la città dentro il fiume non è un piccolo gradevole ma prevedibile nucleo originario, ma una città intera. per qualche motivo trovo mindboggling pensare a un centro urbano così grande e compatto circondato da acqua, banchine portuali, isolette, traghetti. il suo cuore alla fine non mi è sembrato central park ma bryant park, più chiuso dai grattacieli ma ugualmente così piacevole, un tutt’uno con la biblioteca che rappresenta quei luoghi istituzionalmente rassicuranti di manhattan, come anche grand central e il general post office, che non mi danno assolutamente il senso di smarrimento dei loro analoghi milanesi. al parco, tra l’altro, le seggiole americane con tavolino incorporato acquistano improvvisamente una ragion d’essere.
città e altri luoghi
il fotografo rudy burckhardt
è effettivamente parente di jacob burckhardt.
perché il mio consumismo culturale si sia arrestato davanti all’edizione in facsimile di new york, n. why? (foto di rb, molto stilizzate, testi di edwin denby), ancora non me lo spiego.
forse ero ancora appagata dall’acquisto del libro con le immagini dall’archivio di benjamin – recensione. (l’archivio ovviamente è a berlino.)
new york in bianco e nero
dunque, si è scoperto che la foto di erwitt che mi ha ossessionato prima della partenza (questa) è stata scattata dall’osservatorio del rockefeller center.
solo che negli anni 50 non c’era il grattacielo metlife, che ora nasconde un po’ il prediletto chrysler building.
volendo, si può persino prenotare una copia firmata del nuovo libro di erwitt su new york sul sito dell’international center of photography.
scaffali: veronelli
«scomparsi i gigi della gnaccia. chi di noi non li ricorda, noi dico, noi ripeto, noi che amando la vecchia milano non riusciamo ad amare la nuova?
venuti dal monte amiata in cento, in mille, i gigi della gnaccia, a battere le vie cittadine; in cento, in mille ad affollare le uscite delle scuole e delle fabbriche. uscivi e avevi allegria dal gigi, dalla gran teglia di rame stagnato sui trespoli, dalla sottile brace di legno di castagno nello scaldino sotto, dall'umile torta con quella superficie piena di grinze e righe a far contrasto con la grassezza della pasta dentro.
il «mio» gigi attendeva noi bambini – taciturno, sbracato ed aggressivo – all'uscita delle elementari in piazza archinto, nell'isola (a quei tempi, ripeto; oggi quell'al di là di porta garibaldi è tutt'altro che un'isola). riempiva i sogni dei miei pomeriggi, gni poco a tastare, irrequieto, nel banco, quei 10, 20 centesimi per il gran pezzo di bronzeo castagnaccio. la felicità era certo una facile conquista.»
luigi veronelli, guide veronelli all'italia piacevole: lombardia, garzanti 1968.
mi sembra un passo opportuno da trascrivere oggi che l'autunno sembra effettivamente arrivato nella piazza suddetta.
dopo aver trovato questo volumetto tra i libri di mio padre, mi sono appassionata alla prosa del mai troppo rimpianto anarcoenologo e ho fatto qualche ricerca: a questo punto lo scaffale è così composto.
– alla ricerca dei cibi perduti, ristampa di deriveapprodi, 2004
– guide veronelli all'italia piacevole:
liguria
piemonte e valle d'aosta
umbria e marche
lazio
lombardia
campania
sardegna
toscana
– bere giusto, rizzoli 1971 (bur 1981)
– i cocktails, rizzoli 1963 (ristampa 1975)
le letture propedeutiche newyorkesi
continuano – dopo l'isola delle colline di maffi, corrado augias che devo dire serve sempre, pezzi e bocconi di american gangster di mark jacobson, i primi 2 gialli di nero wolfe (ho questi splendidi omnibus mondadori di stout trovati su ebay, ma i romanzi sono noiosissimi, non ci si può credere!), chiamalo sonno di h. roth e washington square di h. james – con underworld di delillo.
ora, prima che lo leggessi il volo era stato prenotato, e si dà il caso che cada il giorno dello shot heard 'round the world intorno a cui ruota tutto il libro (a cui aggiungere, se vogliamo, il fatto che sono nata il giorno 13 e la somma delle ultime due cifre del mio anno di nascita dà 13).
sono circa a tre quarti, e a questo punto trovo rigenerante un libro in cui si segue il destino della spazzatura e di una palla da baseball, non dei personaggi.
non andavo in sardegna

dal 1998, una delle prime vacanze con p.: era un campo di legambiente a guspini, vicino alle miniere di montevecchio.
questa volta invece, giro in tenda della costa settentrionale, da olbia ad alghero con escursioni all’interno. ho ripreso da poco a fare campeggio e mi stressa il nuovo problema – non so se tipicamente sardo; in corsica per esempio non sussiste – di evitare i «campeggi-villaggio» carissimi, pieni di animazione, chiasso, tessere club ecc ecc.
vibrazioni positive a marina delle rose: fitta pineta, bel litorale nordico, kitesurfers.
il punto più ridicolo della rough guide: segnala un dolmen alto 6 metri (neanche stonehenge, temo). sì, benché privi della guida di julian cope abbiamo fatto un po’ di tappe archeologiche: vicino ad arzachena i siti di li muri e li lolghi (questa sembra proprio la tomba dei giganti della copertina di the megalithic european), il suddetto dolmen ladas a luras (ci siamo andati col preciso scopo di ridicolizzare la rough guide) e, quanti ai nuraghi, santu antine.
sono stata ad alghero, ma non in compagnia di uno straniero.
la mia ricerca su internet dà come controversa la ricetta degli spaghetti all’algherese. comunque, se si può aggiungere della bottarga, perché non farlo.
il penultimo giorno siamo finiti a berchidda, sede del festival di paolo fresu, dove suonava steve coleman.
la strana deportazione su traghetti moby (penso sia per l’enormità della nave e della gente, ma l’esperienza del traghetto è brutta) ha consentito perlomeno di leggere un bel po’.
quanto a propedeutica newyorkese
casca a proposito la mostra di weegee.
foto online.
come ho iniziato l’estate
domenica 22 mi sono aggirata per firenze, con estrema precauzione dovuta al caldo feroce (io e m., difficile immaginare due persone più vessate dal caldo – p. non c’era avendo preso come scusa alquanto originale il fatto di doversi recare nel nord del congo, dove fa meno caldo), tra vaghe memorie scolastiche (gita scolastica e nozioni scolastiche) non confermate dalla realtà, un certo senso di oltraggio davanti a un culto della moda griffata che neanche a milano (sottolineo), orde di americani che io, non essendo stata in america, non avevo mai visto tanti tutti assieme. ora, questo ci stava anche bene visti i motivi dell’escursione (di cui poi), ma non ho potuto non pensare alla fallaci, al suo ormai proverbiale sdegno contro gli immigrati accanto al duomo. a parte che di immigrati l’altro giorno ne ho visti pochini (spero stessero facendo la siesta, sarebbe stata l’unica cosa furba), a sfigurare la città storica, anche per chi non voglia museificarla, direi che sono le insegne della boutique monomarca chanel in piazza della signoria e le orde di turisti. tutte cose forse in linea, a distanza di secoli, con la ricchezza di firenze, il commercio di tessuti ecc., si potrebbe anche dire. eppure il lusso nuovo (l’alta moda, i viaggi «culturali» di massa) ha una connotazione per me così disagevole, dal punto di vista costume/morale, che non riesco a dare una valutazione positiva di tutto ciò.
forse per questo non ho fatto neanche un po’ di shopping, né ho avuto voglia di farne, ottimo.
tra gli americani riparati al giardino di boboli, tuttavia (in centro a firenze bisogna pagare 10 euro anche per trovare uno straccio d’ombra, questo la dice lunga), c’era un anziano signore che ha suonato soavemente la chitarra per tutta l’oretta in cui ci siamo schiantati sul praticello, e ha pure canticchiato un blues. com’è come non è, era il roadie che accorda la chitarra a neil young, riconoscimento effettuato da m. ché io non sono fisionomista. ny era l’americano (ok, canadese) per cui ci siamo recati a firenze in the first place, pieni di speranza in un concerto il più elettrico possibile, cosa che si è verificata al di là delle più rosee aspettative.
sono una signora con un certo contegno e per farmi venire i brividi ai concerti ci vuole minimo roba così: la versione cattiva di hey hey my my
foto del concerto su flickr: qui e qui. il totem dell’indiano non l’avevo visto, ero un po’ lontana, ma il palco così ingombro, con gli enormi riflettori da cinema su stativo, la batteria al centro e il grande ventilatore, mi è piaciuto.
il pittore sul palco è eric johnson (quanto costerà comprare il quadro out of the blue?)
chi è in grado di scrivere un paragrafo ispirato sull’incandescente chitarra younghiana per favore si palesi. io anche oggi ho bevuto troppo caffè shakerato, la droga dell’estate per chi ha la pressione bassa.
sempre per la serie senonsonsessantenninonlivogliamo, ammetto inoltre di aver ceduto al richiamo degli esosi biglietti per tom waits a milano. speriamo bene.
«in aereo
non si viaggia, si viene spediti, come un pacco.»
karen blixen
il giro mattutino con l’anpi
per il quartiere isola, benché frettoloso (c’erano da posare ben 19 corone, non un discorso né la possibilità di fare la tessera dell’anpi, solo una formalità per gli habitué, mi è parso), si è rivelato illuminante per «collegare i punti» delle lapidi viste tante volte per strada, e passando dall’una all’altra si visitavano tutti i siti dei cantieri nuovi – l’abisso tra la città del ’44 e la città di oggi manifestava le sue ombre pur sotto il sole piatto di questa mattina di bel tempo, veniva voglia di fare ricerche, di entrare nel dettaglio. il 25 aprile mi sembra sempre una delle cose migliori dello stare a milano.