la settimana

iniziata lunedì con il concerto di richard thompson, bello e ortodosso e professionale come ci si poteva aspettare (ma quanto poco folk!), si è conclusa con hey girl! della societas raffaello sanzio a uovo. (l’ha visto anche il new york times, con cui sono abbastanza d’accordo, se non fosse che una unrelenting grimness per me difficilmente è uno shortcoming.)

certo, per quanto il crescendo percettivo dello spettacolo non lasci indifferenti, a un certo punto si accompagna a una rilettura di stereotipi (testo di romeo e giulietta proiettato, donna nera incatenata, tacchi alti) che non mi ha conquistato – mentre mi piace quando la ragazza diventa un po’ bionica, alla fine, interagendo con elementi metallici, frastuono, laser.

invece la prima parte, dal risveglio-nascita alla vestizione allo stridente contrasto olfattivo profumo-telo strinato (ma se ne andrà un flacone di chanel n. 5 a ogni spettacolo? o che cos’era?) all’uso del colore rosa, mi ha preso assai.

(e per il resto della settimana? bleah)
 

nel salotto di jonathan richman

sconcertante, questa primavera di icone anni settanta che scorrazzano per milano (tom verlaine prima, e lunedì c’è richard thompson, mi raccomando).

jonathan richman si è piazzato al piano nobile della casa 139 (martedì 6) a fare il suo delizioso spettacolo la cui componente cabarettistica, nello spazio ristretto, ha preso del tutto il sopravvento: complice il pubblico italiano sempre tendenzialmente caciarone (absit iniuria, nella mia esperienza è un dato di fatto) e il continuo battere le mani tutti insieme, si sono un po’ perse le tracce del coté malinconico a noi più caro nell’opera richmaniana.  (una canzone doveva partire a richiesta, e per uno che gridava hospital ce n’erano 10 a invocare ice cream man, che per di più è stata eseguita quasi tutta in italiano e parlava di uno spaventoso gelataio con i baffi.)
poi, per l’appunto, c’è il fatto della lingua: adorabile lo stralunato – ma non privo di competenza, tutt’altro – plurilinguismo richmaniano, evidentemente rinfocolato dalla cena a base di pizza, però fare metà concerto in italiano non rischia di semplificare un po’ troppo? (così, tanto per rompere.)
l’omino con il viso da anziano clown, gli occhi spiritati che ti fissano inquisitori e le mani tozze agillissime sulla chitarra, the man who made the silly things serious and the serious things seem silly, si accompagna ancora al batterista tommy larkins come in tutti pazzi per mary, lui pure invecchiato benissimo, complimenti.  il loro show accuratamente lo-fi, stilosissimo eppure così amichevole, è da non perdere (magari la prossima volta facciamo a casa mia, così cantiamo le canzoni tristi e quelle più rock, visto che con ballate e pezzi comici siamo in pari.)

einstürzende neubauten all’alcatraz 10.4

visto spesso dal vivo con i badseeds, finora mai nel suo gruppo, blixa bargeld con questo taglio di capelli, le guanciotte e l’abito scuro mi pare una sacerdotessa dada, un custode dello spirito delle avanguardie del novecento, e gli oggetti industriali da percuotere sono altrettanti oggetti di scena; bello il palco con i lampadari rossi, sembra più di essere a teatro che a un concerto (lo conferma il penultimo bis, un’improvvisazione sulla base di istruzioni pescate da un sacchetto).
avevo avuto il buonsenso di non aspettarmi un concerto «pesante», dunque mi è piaciuto, nonostante siano rari i momenti in cui diventa davvero possente.  prevalgono le ballate, e il buonumore.  tuttavia alexander hacke è un vero rocker e suda tantissimo.  tutto fila via, ecco, liscio.
di gente ce n’era, compresi alcuni giovani goth del terzo millennio. i giovani tra l’altro fumano, e io per non farmi notare non mi sono lamentata. alcuni giovani pure chiacchierano durante il concerto, e lì non mi sono lamentata perché le più vicine a me erano due signorine che parlavano piuttosto appropriatamente tedesco. il merchandising come al solito va a ruba, tant’è che il giorno seguente, entrando da h&m, ho incrociato una ragazza con la mia stessa t-shirt.
(l’esperto si è preso la registrazione del concerto, nonostante avesse fatto lo stesso anche due anni fa – io ormai so che uso di più la maglietta.)

ho visto tom verlaine

e mi è sembrato uno spettro, alto e massiccio ma un po' informe, i vestiti neri ma sbiaditi, i capelli incolori, il viso diafano con il nasino all'insù e le palpebre livide, le iridi azzurrissime appena intraviste perché quando alza gli occhi nel cantare guarda in alto a destra mostrando solo il bianco.  la musica della collaborazione con con jimmy rip è liquida, io la chiamo musica delle praterie.  le canzoni sono belle, la maggior parte non le conosco, ma ho sentito una versione lunga di words from the front. nella voce c'è ancora quel singhiozzo un po' straziato.
io e tom verlaine abbiamo lo stesso compleanno, e solo 18 anni di differenza.
all in all, tuttavia, un concerto per maniaci della chitarra – 7 aprile, milano, musicdrome (è il transilvania senza più le pietre tombali, peccato).

poi ho visto into the wild e non è un paese per vecchi, altri spazi americani.  tom verlaine almeno ha la chitarra e non il fucile.  poi leggo american gods. finora anche shadow è disarmato.

scoprire cose vecchie

a volte dà più soddisfazione che scoprire cose nuove, prima o poi rifletterò sul perché.
questa settimana:

Staccato
– il mitico serial johnny staccato con cassavetes ventinovenne più potabile che mai, jazz di lusso (shelley manne alla batteria), veri esterni newyorkesi del 1960, bianco e nero.
arriva su studio universal e al festival di torino.
in america c'è il cofanetto di dvd
esiste un paperback d'epoca presumibilmente tratto dalla serie
commenti:
daily news
senses of cinema

– il disco cosiddetto acustico registrato dai cure come bonus al greatest hits del 2001: bello, risentire le canzoni più famose in una esecuzione omogenea ed essenziale (di alcune ho capito le parole solo adesso).  mi sembrano cantate molto bene; ci sono arrivata  sentendo per caso alla radio  la commovente versione di friday i'm in love. forse è la tipica operazione fans only,  comunque una buona cosa.
l'ha fatto qualcun altro, un album registrato ex novo (non live) suonando una propria antologia? sembra un'idea così semplice e interessante, ma non mi sovvengono altri esempi.