essere attempati al cinema

è di solito cosa più accettabile che nel controverso ambiente musicale con i suoi miti giovanilistici.
e clint eastwood continua a veleggiare ispirato verso gli ottanta: dopo il meno azzeccato changeling ecco gran torino, imperdibile cattiva commovente summa di tutti i suoi personaggi, dal western a dirty harry e oltre.

la mostra di magritte

Magritte l’ho vista domenica scorsa con v. che non può non ricordare la canzone di john cale magritte, e john cale a sua volta mi aveva in effetti ricordato dopo anni how often we saw magritte: c’era già dappertutto questa serie di cartoline (io avevo le due ai lati della foto, quella in mezzo l’ho presa alla mostra dalla stessa serie, nel frattempo dotata di codice a barre), di cui colpivano le immagini più a sorpresa, magari anche un po’ escheriane, e poi c’era l’incanto dell’impero delle luci, iperriprodotto e visto quasi sicuramente a venezia alla collezione guggenheim (ce ne sono anche altre versioni – in mostra qui a milano ce n’era una orizzontale, o sono impazzita io?) durante un viaggio d’istruzione mio e di c. (dormivamo dalle monache) l’anno dopo la maturità.*
e dopo esserne rimasta incantata per un po’ mi ero resa conto che di magritte quella è una delle immagini meno surreali: in una giornata molto limpida e luminosa, in certi paesaggi, è possibilissimo al tramonto avere il buio alla porta di casa e la luce in alto, ma anche dopo che te ne sei reso conto, tutte le volte che vedi quel fenomeno pensi a magritte, che ti segue pinned to the edges of vision.  di magritte non ti scordi, anche se la sua nitidezza da rebus (le  figure in apparenza stereotipate in ambientazione metafisica) magari non ti piace, anche se la sua metadiscorsività magari ti stufa (comunque il librino di foucault sulla pipa e altro – questo non è una pipa, se studio editoriale 1988 – è molto interessante**).
però la rilevanza delle sue immagini non mi sembra quella del surrealismo da manifesto delle frasi d’autore riprodotte nel (bruttino) allestimento della mostra, tese a illustrare appunto il titolo il mistero della natura: la pittura che svela quello che di inquietante c’è nella realtà. no, per me sono importanti l’onirica realtà di quelle casette dalle finestre illuminate, il peso di quei macigni, gli oggetti fuori posto, la ricombinazione degli elementi quotidiani nella logica altra del sogno, così difficile da catturare, e qui per una volta intrappolata con tutti i suoi colori.

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* allora per l’appunto vedemmo anche la mostra futurismo e futurismi a palazzo grassi, per cui questa volta passo, grazie.

** non sto a entrare nel dettaglio ma vi riporto la chiusa, che giunge dopo un discorso sulle immagini che nell’arte contemporanea non possono/vogliono più essere le cose che appparentemente rappresentano: «verrà un giorno in cui l’immagine stessa, con il nome che porta, sarà disidentificata dalla similitudine indefinitamente trasferita lungo una serie. campbell, campbell, campbell».

wroclaw puppet theatre

ringrazio anna castagnoli per aver segnalato da barcellona cosa succede di imperdibile dietro casa mia: ero così impegnata a evitare i molesti clown di strada (il quartiere ne è periodicamente infestato) da non accorgermi delle iniziative su bruno schulz. le ho perse tutte – oggi doveva esserci ancora la mostra (ci saranno state stampe originali del libro idolatrico?) ma il posto è rimasto chiuso – tranne lo spettacolo teatrale. meravigliosamente polacco: bombette e abiti polverosi, banchi di scuola, fantasia e claustrofobia.  la scena con i libri che volano e e il letto del vecchio padre in sanatorio sono indimenticabili.  a questo punto dovrei dire qualcosa di sensato sulla finzione teatrale che diventa al quadrato con le marionette, sul fatto semplice e geniale che le marionette sono i fantasmi, sul piacere di veder ricostruito un mondo con quattro telai di legno, poche luci e i gesti giusti (magici nel senso che vanno molto al di là della loro reale portata), sul fatto che su qualche sito americano ho letto «fra kafka e chagall» è mi è sembrato avere un senso, ma ho ancora mal di gola e voglio ritagliarmi mezz'oretta di veglia per leggere bruno schulz…

appaloosa

di ed harris, in quanto western contemporaneo, me l'aspettavo violento e tormentato. invece è quasi lieve, sartoriale, bei vestiti e facce rugose, un piccolo apologo di frontiera, la smalltown di legno vista davvero piccola com'è, scenografia e costumi.  una commedia seria.  come se billy wilder avesse fatto un western.  a me è piaciuto (a p. secondo me è piaciuto meno, alla fine si spara davvero poco.)
irriconoscibile (purtroppo) la presenza di lance henriksen.

hitchcock e new york

Una cosa che mi sono spesso chiesto in seguito: perché non avevo mai fatto nessun tentativo di visitare l’America fino al 1927? Me lo chiedo ancora adesso. Incontravo costantemente degli americani, ero in grado di leggere perfettamente una carta di New York e conoscevo a memoria gli orari dei treni americani, perché mi facevo spedire gli orari ferroviari: era il mio passatempo preferito. Potevo descrivere New York, dove si trovavano i teatri, i grandi magazzini. Quando parlavo per un po’ di tempo con degli americani, mi chiedevano: «Quando c’è andato l’ultima volta?». Io rispondevo: «Non ci sono mai stato». Non è strano?

(il cinema secondo hitchcock di françois truffaut, pratiche editrice, parma 1985, p. 102)

ieri sera ho visto il film valzer con bashir

e ho pensato un po' a questo tornare bambini per cui cerchiamo di spiegarci a vicenda le cose, anche quelle più tremende, con i disegni di spiegelman-satrapi-delisle-joe sacco, e ora quelli di david polonsky per la storia di ari folman – forse è il primo film che vedo definito «documentario d'animazione» – sui ricordi dei veterani israeliani della guerra in libano.
ci sarebbe da riflettere su come nasce questa esigenza espressiva, io ci vedo un bisogno di decantazione-essenzializzazione-stilizzazione rispetto sia all'overdose di immagini di cronaca sia allo sfocare della memoria.
mentre a pensarci bene le illustrazioni per l'infanzia fanno più spesso il contrario, arricchiscono una linea narrativa abbastanza semplice, aggiungono dettagli.
la storia di folman è complessa, e forse l'uso dell'animazione permette di aggirare un po' l'ostacolo costituito dal lavorare su quello che a me pare lo specifico degli specifici cinematografici, il rapporto del cinema con il sogno e la memoria. 
comunque il film è bellissimo, viene dal paese dove è nata la serie tv in treatment, e nel suo indagare i meccanismi della psiche mi fa temere come al solito la loro rilevanza sul piano sociale (cosa per cui mi angoscio molto – per fortuna non sono del mestiere, altrimenti sarei sempre lì a diagnosticare psicosi collettive, traumi storici, perversioni politiche ecc. ecc.).
tra l'altro l'inizio mi ha ricordato immediatamente il l'ottimo libro di rawi hage, de niro's game (che avrà perso tutti i suoi potenziali lettori grazie al melenso titolo italiano e relativa copertina), e i cani randagi di beirut: torme di cani di razza abbandonati dai ricchi scappati in francia durante la guerra, masnade di cani che infestano le strade bombardate, veri e propri dogs of war.
appropriata la citazione da apocalypse now (i soldatini che fanno surf): valzer con bashir arriva come vent'anni fa i film sulla guerra del vietnam di vent'anni prima, a esplorare la paranoia bellica dei bravi ragazzini spediti a caccia di «terroristi».

film delle vacanze

– film italiani
come dio comanda
di salvatores: che dire, pessimo.
pranzo di ferragosto di gianni di gregorio: surrealismo estivo con vecchiette vere, arriva con la spontaneità di certi… film francesi.
– film francesi
racconto di natale di desplechin: meno male che si chiama così, sennò non usciva neppure a natale (natale che, se contiamo anche le 2 commedie, contava sugli schermi milanesi un anomalo totale di ben 4 film francesi). accorgimenti narrativi elegantissimi, tema familiare antiretorico, elementi teatrali giocati molto bene, attori bravi, insomma gran film. appare un ormai brizzolato hippolyte girardot, e pare che desplechin, amico di eric rochant, avesse collaborato alla sceneggiatura dell’indimenticato un mondo senza pietà.
stella di sylvie verheyde: con la parzialità dovuta a un film sull’infanzia di una mia coetanea (riscattata dal fatto che per motivi sociologici non mi posso identificare tanto con la protagonista, al limite con l’amica paffuta che va bene a scuola), dico che mi è piaciuto molto.  anni 70, ma non mi è sembrato nostalgico. qui le canzoni di stella.
– film americani
changeling di clint eastwood: due ore con clint non sono mai sprecate, ma queste per l’appunto sono più di due ore e il film diventa troppo lungo (troppe espressioni di angelina diverse solo per gli splendidi vestiti, e decisamente troppa esecuzione). film tremendo in senso buono, ma meno riuscito dei suoi ultimi 6 o 7. comunque a febbraio già ne esce un altro. questi anziani mi fanno impazzire, con woody allen sono già indietro di 2 film.

nessuna verità

di ridley scott non funziona molto, se non nelle sequenze d’azione.  dicaprio non risulta tormentato come in the departed, la sequela di episodi ambientati in vari luoghi è un equivalente pseudoimpegnato delle cartoline alla 007, l’artificio narrativo per provocare lo sviluppo decisivo è un love interest abbastanza pretestuoso (e che esistano persone mediorientali più avvenenti, furbe e sagge di molti americani ce lo immaginavamo già da soli, grazie).

mi è sembrato autentico e comunicato con efficacia, invece, il senso di smarrimento di una società che ha cercato di raffinarsi e tecnologizzarsi al massimo per poi scoprire quanto ciò la renda vulnerabile. e questa sensazione di vulnerabilità, con relativo vittimismo, è poi un ottimo antidoto al senso di colpa di una società ricca e benestante verso il resto del mondo, no?

penso che capiti a molti anche sul piano personale, di uscire da una modesta tana da qualche parte per provare a capire come funzioni un po’ di mondo, come migliorare se stessi e la propria vita, tentando di esprimere quel po’ di capacità che si hanno, cercando di stare meglio per quanto possibile, per poi trovarsi con un gran senso di inutilità di fronte a sviluppi storici maggiori, a dinamiche più primitive, alla necessità di guardare oltre il proprio orticello.
e sul piano personale forse una consapevolezza del genere può portare ad atteggiamenti più «socialmente utili».
ma sul piano collettivo (politico, sociale)?

standard operating procedure

è il nuovo film di errol morris, su abu ghraib, visto a milano il 29.11 nella rassegna di filmmaker.

l'unico punto di partenza oggettivo per studiare l'accaduto sono le foto, e sulle foto em lavora ossessivamente: fin dai titoli le presenta e ripresenta, parla con chi le ha scattate, con chi era lì con chi le ha analizzate a posteriori. come sempre le sue interviste sono bellissime, tridimensionali, attente, e non si sentono mai le domande (tranne, come al solito, qualche sua precisazione quasi urlata fuori campo).

poi, un altro suo metodo ricorrente, ci sono le sequenze delle ricostruzioni. questa volta persino il «new york times» (sul cui sito morris tiene un blog) sembra suggerire che abbia un po' esagerato (recensione).

e per quanto io abbia amato la serie first person e i lungometraggi precedenti, è difficile non avere questa impressione. la scelta è di suggerire allo spettatore il peggio che le foto possano suggerire, pur con lo scopo condivisibile di mettere in discussione la moralità dei metodi definibili dall'esercito «procedura operativa normale».

dal blog, la teoria di errol morris sulle ricostruzioni nel documentario:

I used to tell people I was only re-enacting subjective accounts, I was never re-enacting reality, per se. Now I look at it differently. It is a part of an investigative process. I take a retrospective verbal account, and then try to bring the audience’s attention to a specific detail that will allow them (and me) to think about some detail, what it means, what it tells you about reality. It allows you to think about a scene in a different way.

su quantum of solace

ho il brano di fleming da cui viene il titolo
e la considerazione che, pur rischiando di essere un film di vendetta, ne esce molto bene: bravo daniel craig, maledetto ma non completamente dannato.
rischia anche di essere un film d’azione esasperata, ma in qualche modo si riscatta pure da questo. insomma, l’abbreviazione poco rispettosa sul biglietto, che recitava "quantum of sola", è stata smentita.
[io ovviamente mi identifico sempre più con M, sempre meno con le bond girls :o]