gare du nord di claire simon

[appunti mai sviluppati su un film visto tre anni fa]

2

(partir, c’est mourir un peu)

piani spaziali

piani sonori

l’accademia e la vita

le ragazze sole: secondo il giovane nero «non dovrebbero stare lì» ma ce ne sono tante, tantissime

al contrario dell’aeroporto la stazione è in continuo scambio con la città, non ha la sua qualità di bolla protetta dalla distanza e dai controlli di sicurezza.

morte passaggio

esplicitano la soglia: ragazza con didgeridoo, la dame pipi

le ossessioni di tutti: di ismael per la stazione, di mathilde per ismael, di sacha per la figlia scomparsa, fino ai personaggi  più disturbati: l’uomo che odia la biancheria provocante, quello che ripete «non sono nel panico come voi», il sardo che crede di avere un microchip nel cervello

gary

lou castel

il film è un po’ lungo, a un certo punto ho capito che mi stancava e ho ritrovato la sensazione di quei sogni in cui devo partire e giro per una stazione senza riuscirci.

mathilde se ne va.

joan e ismael pure.

(on laisse un peu de soi-même / en toute heure et dans tout lieu)

the heart and the book

More than ten years ago, at the National Gallery in London, I purchased a mouse mat depicting a fascinating detail from a Flemish painting (I’ve never seen the actual painting though).

It is still my mouse mat at work, but only today I discovered there is a whole (regularly shaped) book devoted to this subject:

«The notion of the heart as a “book” containing a person’s thoughts, feelings, or memories is one of most prominent forms of heart symbolism in the Middle Ages. In romances, lovers’ hearts were inscribed with the name or image of their beloved, while saints’ legends celebrated martyrs whose hearts received marks of special divine favor. Clergy were instructed to let their inner scribe copy God’s commands onto the pages of their hearts, and ordinary believers prayed for Christ to write the memory of his Passion in their “heart books.” Artists portrayed authors holding a heart and a pen, and some late-medieval paintings depicted the sitter as a scribe or reader holding a heart-shaped manuscript codex. Medieval artisans even produced actual heart-shaped manuscript books, some of which still survive.»
Eric Jaeger

the heart is a book

the Master of the View of Sainte Gudule:

The Metropolitan Museum of Art, New York

The National Gallery, London

«the bob» and colleen moore

a few links about the actress whose eye (probably the brown one, as I can see from colorized pictures) & bangs I stole for my favourite buddy icon.
I'm not comfortable with buddy icons, but this stuck somehow – though I had never heard about her, when I found her portrait in the book il futurismo e la moda (in a page about the change of role models in the 20s and the french novel la garçonne).

it turns out moore was the first american actress to make bobbed hair popular (not louise brooks) and that she was (massively, we could rightly say) into doll houses.

colleen moore's fairy castle

colleen bobs her hair

the colleen moore project and a forthcoming new biography.

(seeing her movies seems nearly impossible now, but I'll look into it and report back.)

 

scaffali: mervyn peake

dunque siamo passati dal non aver mai sentito nominare mervyn peake al fare provviste per l’inverno (ho anche l’ebook della trilogia in inglese, pur non avendo un lettore di ebook).

titus mi è piaciuto molto nella sua farraginosa gotica complicatezza, che lo sceneggiato della bbc annacqua implacabilmente con scenografie infantili e un umorismo grottesco che è solo un’infima parte della ricchezza del libro. però vale la pena di vederlo anche solo per christopher lee, jonathan rhys meyers e ian richardson (purtroppo nel frattempo deceduto anche nella realtà). così ho appreso come gli inglesi  pronunciano fuchsia: fiuscia. la cosa mi ha scioccato, inutile negarlo.

 

jonathan demme

va a finire che lo seguo più che altro per motivi musicali: aggiudicatosi incondizionata fiducia negli anni 80 con stop making sense e qualcosa di travolgente (film bello dotato di bella colonna sonora), mi aveva poi deliziato con storefront hitchcock, episodio non secondario nel ritorno di fiamma della carriera di robyn hitchcock a fine anni 90 (poi, come si sa, rh appare anche in manchurian candidate e rachel getting married).

sabato scorso al milano film festival, demme ha detto che riprendere musica dal vivo gli pare la quintessenza del cinema: c'è già qualcosa di appassionante che succede, e non bisogna far altro che coglierlo. così bravo come regista di ogni genere di film (capace di fare suo ogni film di genere), demme è insomma un documentarista nell'anima.
fra i suoi documentari di argomento non musicale avevo già visto the agronomist, e la settimana scorsa ho recuperato il film su jimmy carter, man from plains (colonna sonora di alejandro escovedo), ammirata da come riesce a fare film su brave persone intelligenti e di buona volontà senza cadere nell'enfasi, guidato da una specie di istinto: è molto diretto ma molto preciso, acuto, concede spazio alle emozioni senza sopravvalutarle, racconta efficacemente senza affabulazioni fasulle.  viene persino un po' da generalizzare: che meraviglia gli americani, quando sono così.  anche nel parlare, stesso stile: spontaneo nell'entusiasmo e gentilissimo, ma concreto, dritto al punto (pur nella strana triangolazione del dibattito al teatro strehler fra le domande vaghe e sgrammaticate della curatrice della rassegna e quelle intellettuali di guadagnino).

per tornare alla musica, approfittando della personale del milano film festival ho scoperto che il primo film di demme, la pellicola di exploitation carceraria (femminile) caged heat, prodotta da roger corman, aveva la colonna sonora di john cale (sempre interessante, e il film non è affatto male – un delirio da cui escono alcuni bei personaggi: peccato vederlo massacrato da una videoproiezione orrenda).
e poi sono andata alla prima del terzo film che jonathan demme dedica a neil young. avevo visto il primo, neil young: heart of gold, ottimo, ma che nella sua ambientazione nashvilliana faticava a conquistarmi completamente.* neil young journeys è molto diverso. doveva chiamarsi neil young life, ma a ny sembrava troppo pomposo. il motivo è subito chiaro: troviamo young nella cittadina dell'infanzia omemee (la quale, diciamolo una volta per tutte, non è in north ontario) che sale su una macchina d'epoca – seguendo il fratello, anche lui su una macchina d'epoca –  per andare a toronto, dove terrà un concerto solista alla massey hall, luogo dove notoriamente si esibì con successo nel 1971 (la registrazione è stata pubblicata su disco solo da poco). i ricordi d'infanzia sulle galline dei fratelli young e sulle figlie dei vicini si alternano alle canzoni del concerto, girato con tantissimi primi piani e dettagli del viso, spesso catturati con microcamere montate sul microfono o dentro l'harmonium: qui neil young è vecchio, vecchissimo. forse più vecchio di quel che è in realtà, nel ripercorrere la sua vita attraverso le canzoni (scaletta 2011, scaletta 1971) di nuovo solo su quel palco, solo con i suoi strumenti e una specie di totem indiano. dentro il documentario anche una canzone documentario, ohio, che demme illustra con riprese d'epoca, nomi e ritratti – sapete gli strazianti ritratti da annuario scolastico americano – delle 4 vittime di quando la guardia nazionale sparò a una manifestazione contro la guerra del vietnam. didascalico? no: è per chi non lo sapesse, perché sicuramente tanti non lo sanno – è passato molto tempo. il concerto è bello e jonathan demme segue la sua teoria: lo segue da vicino, ma anche lo lascia scorrere. arriva fino al punto di tenere intera una ripresa della microcamera dove evidentemente l'effetto speciale è… uno sputo del cantante: una chiazza sullo schermo che cambia forma e colore trasfigurando l'immagine – da un incidente meccanico una conseguenza psichedelica – e conservando l'unicità di quel momento su quel palco.

 

* curiosamente, a causa dell'ambientazione teatrale e della parola prairie tendo a intrecciare il ricordo di quel film – dove young presenta il disco prairie wind – con il quasi contemporaneo ultimo film di altman, radio america (a prairie home companion), nonostante nashville e il minnesota siano piuttosto distanti. sarà che il minnesota confina con l'ontario.

burke and hare di john landis

Foto questa volta la vacanza ha comportato autostrade, traghetti, autogrill, partecipazione a movimenti di massa. ogni tanto va bene anche fare così, buttarsi nella mischia.
al ritorno a milano, dopo una giornata di lavatrici fatte cercando di non pensare che alla fine qualcosa si sarebbe anche dovuto stirare, l’impietoso termometro della cucina ci ha spinto verso l’utopia «cinema all’aperto=fresco» (mentre ovviamente la realtà è «cinema al chiuso=fresco»).
di john landis non vedevo alcunché da trent’anni a questa parte, credo. per la storia dei trafficanti di cadaveri di edimburgo dovevo fare un’eccezione, anche se il film si è rivelato poco più di un divertissement in costume, neanche troppo macabro, ravvivato (è proprio il caso di dire) dalla satira sull’arrivismo e l’egoismo di tutti i personaggi, condita di deliziosi anacronismi (la «lista degli invitati» al pub).
vorrei lamentarmi del fatto che tim curry ha una parte molto secondaria e sfido chiunque a riconoscere il cameo di christopher lee.
piacevole risentire sui titoli di coda i’m gonna be dei proclaimers (anno di grazia 1988) e anche scoprire ora via web che la band esiste tuttora.

the tree of life di terrence malick

sincretismo americano: potrebbe mai un film di kieslowski contaminarsi con koyaanisqatsi e persino con jurassic park (o se preferite avatar)? evidentemente sì.
un film molto libero, molto lungo, molto bello in ogni immagine, molto commovente per l'amica m. che è mamma, per me anche un po' ripetitivo e in ultimo non del tutto soddisfacente: non angosciante né catartico. è… estatico (ma in una maniera un filino stucchevole, no?).
direi che mi è piaciuto ma non l'ho amato (a parte il ragazzino riottoso, quello sì – c'è dentro anche un po' di stand by me, chi si ricorda?)

visioni del finesettimana: valdoca e skolimowski

minimo comun denominatore: struggente presenza di bestie – in particolare un cervo.

caino del teatro valdoca: nel bianco del palazzo del ghiaccio, danio manfredini/caino cammina senza posa nero come una silhouette di tracciamenti (giuro che, fra cranio rasato, abito longuette e stivaletti col tacco, era quasi identico). i testi come al solito estremamente enfatici di mariangela gualtieri finiscono (per fortuna) per fare da sfondo a un'azione scenica complessa e vivace, dove un angelo, un diavolo dal manto fatto di animali morti e varie creature interagiscono con caino (nella sua sofferta decisione di delinquere e conseguente esilio) e fra di loro (tutto un mondo di relazioni fra esseri umani e fra esseri umani e natura non esisterebbe, forse, senza quel primo assassinio e quella prima menzogna che ci differenziano sostanzialmente dagli animali).  interessante assai, ma che fatica  – un'ora e tre quarti senza la minima narrazione… mica facile. una cripticità che ha l'effetto di controbilanciare costumi luci musica impeccabili.
resta curiosità per le rappresentazioni precedenti: le foto documentano differenze notevoli.
e il cervo? è l'unica presenza scenica che non viene usata/manipolata in alcun modo. rimane a guardare.

essential killing di skolimowski: nel bianco di una neve presumibilmente polacca, vincent gallo/mohammed cammina senza posa, anche lui in fuga dai propri crimini (ha ucciso soldati americani in un deserto presumibilmente afghano) ma soprattutto dall'esercito che l'ha catturato, torturato e poi deportato verso una base militare del nordeuropa. si comincia con qualche tranche de vie delle odierne guerre americane e si va a finire ancora in dead man di jarmusch, compresa l'epica, escluso il distacco (del b/n e molto altro): quando hai il tuo destino addosso la natura non ti può salvare – e non parliamo dei tuoi simili. nel peregrinare apprenderai più di quanto hai conosciuto in tutta la tua vita, ma poi. (e del resto, non moriamo forse tutti, alla fine?)  qui però c'è una progressiva, dolorosa trasformazione dell'uomo in animale braccato, inesorabilmente solo. consiglio di resistere fino all'indimenticabile tocco finale dello skolimowski pittore.
il cervo è quello a cui mohammed – sebbene per sopravvivere e per cibarsi sia capace di tutto – non spara.