è una canzone di john paul jones e peter blegvad che ventiquattr’ore fa, sentendola per la prima volta, mi sono trovata ad acclamare con le lagrime agli occhi come un capolavoro. perciò stasera mi sono fatta due sane risate trovandola definita in rete «la peggior canzone della storia della musica» nonché un brano «penalizzato da un testo non esattamente eccezionale» o, per bene che vada, «francamente strano»… di certo, dunque, ci fosse stata più gente a sentire blegvad e hitchcock ieri a milano, sarebbero potuti volare dei fischi; invece il posto era piccolo e i presenti parevano in solluchero come me davanti alla calda intelligenza e ai fascinosi capelli grigi dei due.
ci si è un po’ rifatti di quella volta che blegvad venne alla milanesiana ma riuscì a suonare solo una canzone e mezzo prima che si scatenasse il diluvio (gli inconvenienti di ieri sera si limitavano ad altoparlanti pronti a rumoreggiare per conto loro), e di sicuro, se avessi saputo che l’omone si sarebbe seduto a un metro da noi, nella ristrettezza del locale, per finire il suo bicchiere, avrei portato il libro di leviathan da fargli firmare.
ma, se l’omone con le canzoncine minime mi è piaciuto parecchio, che dire di un uomo solo un poco più basso che da solo riesce a non far rimpiangere una band?
hitchcock, dal vivo con la sua chitarra e basta (e la camicia con i papaveri e un piccolo sennheiser da fissare con il nastro adesivo), è di un’intensità tale che non osi quasi immaginarti come debba essere con un gruppo, o come dovesse essere da giovane. oppure, ancora meglio, ti immagini che sia più bravo ora che da giovane. insomma, io già dopo chinese bones ero innamorata del suo colorito britannico teneramente arrossato (riflettori? timidezza? quel grande calice di vino italico?) e lo vedevo trasfigurato. poi è uno di quei casi in cui chi se ne importa della scaletta: scrive solo canzoni belle o bellissime, costui. (il meno che si possa dire di una canzone di rh, al limite, è che sia solo divertente.)
io stessa, per la verità, mentre l’altro giorno cercavo di trovare un po’ di tempo per sentire luxor – l’ultimo suo disco che son riuscita a procurarmi – mi lasciavo andare a sbuffi di «che palle, un album acustico». sbagliando di grosso, naturalmente, perché è un disco molto bello. per cui vorrei tentare di riscattarmi dichiarando hitchcock il più grande autore di testi del pop mondiale, almeno nella mia testolina, perché davvero oggi non mi viene in mente nessun altro all’altezza del titolo.
dal vivo
di teatrino clandestino
ho visto qualche anno fa hedda gabler e ieri sera madre e assassina.
è incredibile quanto sia elastico il dispositivo teatrale, posta come unica condizione la presenza degli spettatori.
loro usano molto il video,* e qui la cosa è portata alle estreme conseguenze: dell'azione teatrale si vede un preciso simulacro videoproiettato e filtrato da un altro schermo, trasparente – le voci ci sono, invece, vere (alla fine dello spettacolo i due schermi si abbassano svelando gli attori e la scatola del teatro) – tranne quando, con un brusco scarto, ci si trova un attore in carne e ossa lì a un metro, in platea.
un meccanismo raffinato applicato a una materia cupa e viscerale: direi che serve, perché non si vuole spiegare ma far osservare, lavorare su piani diversi per esplorare diverse dimensioni dei personaggi (che prima di essere personaggi teatrali sono personaggi di un fatto di cronaca, personaggi televisivi, forse anche personaggi cinematografici, vista la citazione dell'ambientazione anni cinquanta). per questo, credo, il testo è ridotto all'osso – a una sceneggiatura che sa di esserlo, fatta salva la battuta finale «una cosa non sopporto: che di tutto si cerchi di fare poesia» – e giustamente banalizzata la tentazione di una spiegazione puramente sociologica del delitto.
uhm, sì, il tema dello spettacolo è una madre che uccide in puro stile film horror i due figli, ma nel parlare dello spettacolo a me veniva da dire – al posto di infanticidio, che comunque non andrebbe bene perché i figli non sono piccoli – matricidio: c'è materia per lo specialista, mi pare.
* «Quello che la cultura dell’immagine ci ha tolto, il teatro ce lo restituisce nella sua sola grande regola del qui e ora, ma trasfigurato, SPETTRO.» (tc)
a vedere lo showcase di stan ridgway
ci sono andata (dopo aver valutato che rimini e udine erano veramente un po’ troppo lontane, per me, per un concerto acustico – l’unico tipo di concerto che gli ex famosi si possano permettere dalle nostre parti, pare). c’erano parecchi quarantenni going on 13, cioè parecchi sul totale delle persone, a dir tanto un centinaio. c’era questo signore molto arguto che ha fatto da solo quasi un cabaret di storie di una hollywood minore e canzoni alla chitarra (e un po’ d’armonica), e quando fa così è veramente una delizia, anche se, a differenza di altri musicisti della sua età, sembra uno zio un po’ invecchiato.
motivi per alzarsi la mattina, un lunedì
forse la soddisfazione di chiudere un libro importantissimo per il fatturato aziendale? mah. forse la notizia della fugace presenza di stan ridgway a milano oggi?
la risposta sta nel fatto (mai verificatosi prima, a quanto ricordo) che sono uscita di casa con un quarantacinque giri e un pennarello nella borsa. quel test che gira in questi giorni sulla «età interiore» mi dà 29 anni. going on 13, direi.
questi badseeds
sono puntuali come ragionieri nel salire sul palco, numerosi come una compagnia teatrale, superprofessionisti e lavoratori indefessi nel ricreare il suono del disco nuovo, in un set che fila liscio liscio, con le impennate forsennate di supernaturally, get ready for love, there she goes, ma accuratamente distribuite, quasi sobriamente distribuite. i pezzi di prima (prima che bargeld lasciasse, prima che il pubblico di cave diventasse quello indifferenziato e placido dei concerti mainstream e discretamente costosi, prima che la band-modello-base diventasse così evoluta, spettacolare dentro il trapezio delle due batterie e delle due tastiere) arrivano nella seconda parte, tra una red right hand e una stagger lee veramente bellissime; in mezzo anche deanna (ma siccome saltavo solo io ho colpito con il mento lo spettatore davanti, sorry), do you love me, god is in the house, qualcos'altro che non mi ricordo. i brani di the good son sono quelli in cui il suono di prima si fa rimpiangere (weeping song e ship song). e poi sì, alla fine di tutto the mercy seat. finalmente senza giacca e senza coro gospel, un po' meno vecchio elvis, un po' più nick cave.
non sempre i fine settimana
portano sorprese. e invece stavolta, se già ero contenta di un sabato pomeriggio come di vacanza e di novità, in cui non mi sembrava neanche di essere a/di milano (be’, comunque io in effetti non sono di milano), tornare a casa e trovare un’email che mi annuncia un insperato concerto dei legendary pink dots domenica non poteva che rendermi più contenta (oltre a inquietarmi un po’, ma è normale).
dunque, la stessa giornata in cui ho dovuto recarmi al paesello e andare a messa (sì, ho dovuto) si è conclusa con edward kaspel a strillare «our lady’s selling tissues for the tears, for all the years of blessed rape in the name of our sweet lord» – davanti a cento persone se contiamo anche i baristi, i venditori di cd e la cassiera. ma tra costoro, totalmente imprevisto, si è manifestato il bel viso del cultore di suoni strani a cui devo molti dei grilli che ho per il capo: non ci vedevamo da sei o sette anni, neanche a metterci d’accordo ci saremmo riusciti. L’abbiamo lasciato ad aspettare di parlare con kaspel e silverman mentre noi correvamo a prendere la novanta, con in mente l’ultima bottiglina di birra rossa rimasta nel frigorifero.
la ragazza di nome johnny:
non c’è nessuno come lei. nessuno con la sua libertà di sfidare gli stereotipi – di genere, soprattutto, ora anche della vecchiaia (e io sono sempre alla ricerca di modelli per invecchiare).
c’è stato glad day proiettato dietro il palco, e il nuovo classico my blakean year.
la storia di quando rimbaud rischiò di morire a milano: svenne per la fame in piazza del duomo, ma una vedova lo portò a casa sua e gli diede da mangiare. (domani è il 150° della nascita.)
l’attaccamento a certe icone, in barba al rischio di banalità: sullo schermo marlon brando, jim morrison, la mano di papa luciani per wave.
il divertimento di fare una cover di george michael – proponendosi come father figure assai più credibile.
il bis perfetto: because the night, trampin’, gloria.
che suggerisce perché lei sia una leggenda: per lo stile – che si riassume tutto nell’uso della voce – più che per la musica. e infatti il suo pezzo più famoso (e il suo primo successo) è una cover, il secondo pezzo più famoso è suo per metà. così bello che non si può consumare mai. lo saprà, che a noi fa pensare all’atalante di jean vigo?
e la musica? è il calore di un rock classico che funziona alla perfezione (per chi come me tende a non apprezzare tanto le chitarre soliste, lenny kaye è una cura), ma innervato e inquinato da quella voce che senza tante cerimonie attacca con pissing in a river e così in un attimo torna al suo posto, sotto la pelle di chi ascolta. proprio un bel concerto.
[a quanto mi ricordo ci sono state anche redondo beach, free money (forse anche break it up?), beneath the southern cross, gandhi, people have the power, alcune piccole prediche, perdonabili, grazie al suo bellissimo sorriso.]
a ognuno i ricordi che si merita
tibet dal sito durtro:
This is 28 IX 2004; I am sick with a cold and drinking Italian chardonnay wine and am delirious. My cats are my HALO. I was reminiscing about how often I went to see Adam and the Ants in their early years and talked with myself a lot about it all. They were amazing. Adam Ant was the best man at the marriage of Nick Saloman (Bevis Frond) as they went to school together; I believe Adam also suggested the name Bevis Frond to Nick. At one point in the late 80s Rose McDowall, Douglas P. and myself were planning a group consisting of us three called STRAWBERRY DEATH CURRENT, which must be one of my favourite names ever… I don’t believe any recordings were ever made however. I miss punk rainbow beauty.
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1. se qualcuno ha la scaletta del concerto del 25 a to, per piacere me la mandi;
2. tu che sei arrivato ieri cercando autografo+current+93: se ripassi, due righe di che corrispondono alla chiave di ricerca le trovi qui (clic sull’immagine)
a real cool time
è arrivare in un terso pomeriggio d’estate in un parco torinese a piazzarsi al fresco sotto un albero, a guardare i pensionati che giocano a bocce, per la maggior parte a torso nudo, e i fan degli stooges stravaccati sotto gli altri alberi, per la maggior parte vestiti. e passare tutto il tempo a ridacchiare senza leggere neanche una riga dei giornali che ci si è portati dietro, anche perché la mescita della guinness inizia alle cinque del pomeriggio.
un po’ più tardi arriva il momento del corroborante hot dog e anche di avvicinarsi al palco, dove tutti se ne stanno placidamente seduti aspettando il crepuscolo e l’arrivo del gruppo spalla. ma supercool è dimenticarsi in un attimo di quei tamarri del gruppo spalla quando entrano correndo sul palco alcuni individui che erano già lì a cambiare il rock’n’roll quando io avevo un anno, e in pochi secondi scatenano un’onda di marea che mi porta su e giù mentre iggy balza a destra e a sinistra e io ci vedo benissimo e rido per tutto il tempo delle prime canzoni, finché non è meglio accompagnare un po’ più indietro la mia amica pa.
ormai a distanza di sicurezza, rimaniamo impietrite mentre iggy fa salire sul palco una masnada di fan scatenando un vero caos, e poi la scaletta si addentra tra i più ostici fiati di fun house. verso la fine del concerto ritroviamo un po’ della nostra comitiva dalle parti del mixer, in tempo per saltare insieme come molle durante la seconda, ancor più devastante (possibile?) versione di i wanna be your dog. la birretta di decompressione al tranquillo chiosco del parco è assolutamente insufficiente a smaltire il rimbombo nei timpani, un simpatico ricordo destinato a indugiare per parecchie ore (px, che è stato davanti tutto il tempo, ne denunciava tracce ancora ieri sera).
credo a questo punto di aver degnamente posto rimedio due mie lacune piuttosto gravi, ovvero: 1. non essermi resa conto per molto tempo che il primo album degli stooges (non per nulla prodotto da john cale) stava lassù nell’empireo dei Debutti Inarrivabili insieme a quelli dei velvet e dei doors; 2. non aver mai visto iggy pop dal vivo fino all’altro ieri. dico, non avrei mai pensato che del rassicurante slogan «non è mai troppo tardi» potesse esservi incarnazione tanto luciferina.
ma credetemi, esistono!
si cominciava a disperare, ieri sera, dopo aver passato ore in un mazdapalace semideserto in attesa degli anarchistes (anche stavolta, la sincronia vita mia-concerti estivi è finita in un buco nero – ma delle quattro cinque band per sentire le quali la festa di liberazione estorceva cinque euro, neppure il nome rimanga, anche se forse sarebbe giusto additare al pubblico ludibrio le loro nefandezze).
ieri sera, pubblico poco. ma les anarchistes sono arrivati. e hanno suonato.