all’aperto, in campagna

forse i concerti suonano meglio, forse io mi diverto di più, non so. fatto sta che sia a pusiano sia a casola valsenio belle sorprese, musicisti bravi, set ben riusciti sono arrivati con una facilità che nei concerti di routine spesso ci si limita a invocare invano (sarà anche perché locali belli per suonare quasi non ce n'è – e a milano, vorrei ricordare, ha pure chiuso il rolling stone). 

Insomma, volenti o nolenti sotto il nume tutelare di bob dylan, che quelli del buscadero vogliono portare a pusiano e quelli di strade blu omaggiano in serate monografiche con steve wynn, eccoci venerdì 14 nel cuore della romagna, il che fa sempre piacere, a vedere robyn hitchcock attaccare il concerto con una nervosa versione della altrimenti straziante not dark yet.  se durante il soundcheck portava calzoni verde pisello e camicia rossa con la frutta, adesso eccolo in calzoni viola e camicia di fantasia indefinibile. indi, accompagnato dall'abbastanza entusiasmante, a mio parere, sezione ritmica di rob ellis e paul noble nonché da jenny adejayan al violoncello, esegue quasi tutto l'ultimo album, goodbye oslo, presentando i pezzi in italiano (e qui i puristi arricciano il naso perché il leggendario sarcasmo hitchcockiano ne risulta leggermente appannato).  umarells e vecchie signore che sgranocchiano la salvia fritta (siamo nel bel mezzo del mercatino delle erbe di casola) sembrano gradire.  a essere venuti apposta per il concerto saremo in venti compresi gli organizzatori (ciononostante non ho la setlist e non ho detto ciao a robyn, perché sono pigra).
pezzi vecchi: america, sounds great when you're dead.  altri pezzi più recenti: you and oblivion, nasa clapping, full moon in my soul, sometimes a blonde, museum of sex.
pochi? invece no, non c'è proprio di che essere nostalgici: con un repertorio così vario e compatto, più bello e simpatico che negli anni ottanta, incoraggiato dall'america e da internet e da jonathan demme (e chi più ne ha più ne metta) a lavorare come un matto, rh si conferma più bravo che mai (come dovevasi dimostrare, anche nel concerto elettrico).

ah sì, le inevitabili cover finali: golden years con un imbarazzato steve wynn ai cori, e a day in the life. hai detto niente…

In apertura, invece, la bella sorpresa è stata christine lakeland, accompagnata da chris cacavas (che non ha più i capelli lunghi) alla tastiera e danny montgomery alla minibatteria – bel blues ironico, america in dose omeopatica.

sentire gli steely dan

mi dà sempre un'impressione di lusso, di abbondanza – tutta l'america che c'è dentro, il jazz e il blues e il funky, tutte cose che restano per me fondamentalmente esotiche, e in regalo la voce di donald fagen…
anche il concerto (milano, arena civica, 9 luglio) mi ha fatto questo effetto: la precisione e la professionalità della big band (proprio quella che comincia a suonare prima delle star titolari e conclude dopo la loro uscita), la scaletta così varia e fluida e divertente (internet! non trovo la setlist). per tutta la settimana avevo avuto una premonizione acustica sottoforma di una insistente any major dude will tell you in testa, ma non si è avverata.
sd sono anche la cosa più anni settanta che mi sia mai piaciuta, e mi sono piaciuti tanto. una cosa anni settanta ascoltata e amata negli anni ottanta, obbligatoriamente alla radio, trainati dal successo di the nightfly di donald fagen, l'album perfetto, il 1982 in cui si riscopriva l'atomic age. insomma gli steely dan mi fanno un po' da bigino del dopoguerra e sono andata molto volentieri a vedermeli per la prima volta, da sola come andavo vent'anni fa a vedere i miei primi concerti.  all'arena c'erano molte zanzare e non poi tantissima gente (con alta percentuale di fan assidui, pure un po' molesti) ma ha cominciato a fare buio quando la scaletta entrava nel vivo con home at last, e a quel punto era proprio così che ci si sentiva. come del resto ogni volta che si riascoltano i loro dischi – a me piacciono quelli vecchi – da tenere un po' come reminder di tutte le cose piacevoli che non ci concediamo quasi mai. swinging is possible.

life along the borderline a ferrara

Palco e così abbiamo avuto la fortuna di vedere in italia la replica di un evento londinese di cui si favoleggiava l’autunno scorso… non vorrei che john cale mi diventasse come certi musicisti stranieri che arrivano in italia un giorno sì e uno no, perderebbe il suo fascino!
ma per ora non c’è pericolo. nella scatolina di legno dipinto del teatro all’italiana cale sedeva – uomo d’azione e non di vane parole, nonostante la circostanza commemorativa – al centro di una macchina musicale potente, che irradiava la sua leggendaria abilità di produttore.  alle canzoni di nico è successo questo: hanno acquistato strumenti, calore, energia, pur mantenendo la loro qualità spettrale grazie a un particolare lavoro sulle voci.  john cale ha il vocione splendido di sempre (sempre più sorprendente per me con l’avanzare degli anni) che avvolge le canzoni di intensità e distacco (o rimpianto, non so cos’è, una cosa caratteristica sua).  sarei contenta se qualcuno di questi pezzi continuasse a eseguirlo nei suoi tour (sempre ottima la band).  a peter murphy, pure col vocione, ma più ieratico, il ruolo di citare atmosfere teutoniche, teatrali, decadenti come solo lui sa fare (love you peter, nonostante il diradamento tricologico – ma perché nel finale avevi la borsetta a tracolla e poi sei sparito? avevi un altro impegno?).  a soap&skin, la più giovane, donna e di lingua tedesca, il compito di avvicinarsi senza rimpianti all’originale.  mark linkous ha esordito con una voce pesantemente filtrata e lisa gerrard l’ha seguito invadendo il teatro con l’effetto eco (non l’avevo mai vista dal vivo ma ho avuto l’impressione che la voce non l’abbia tirata fuori tutta, e mi è un poco dispiaciuto l’atteggiamento da diva svampita; comunque un appropriato pendant femminile a peter murphy).  mark lanegan: altra declinazione del vocione, bravo, senza smancerie (saranno questi i jim morrison che ci toccano oggi? uno se lo chiede).  più incisiva la partecipazione dei mercury rev, soprattutto  per jonathan donahue (qui ritratto con contorno di conigli), che con mark linkous era la voce maschile-ma-fragile della serata e si è esibito in splendide imitazioni di david tibet (qui ritratto con contorno di gatti) in una versione di evening of light che potremmo definire, se l’aggettivo non fosse abusato, ipnotica.  questo è stato anche il peregrino momento star trek della serata – considerato che si era parlato di star trek nel pomeriggio (e io di solito non parlo mai di star trek, non vedo star trek, non penso a star trek)  la cosa, devo dire, mi ha colpito.

setlist
recensione
flickr

molto fumo e poco arrosto

la collega f., cantante amatoriale, dice che la presenza di molto fumo sul palco non fa bene alle corde vocali. direi però che non è una spiegazione sufficiente per l'afonia di andrew eldritch, che ha ridotto il concerto di ieri dei sisters of mercy (milano, alcatraz) a una tiratona hard rock (sì, perché a parte la famosa batteria, di elettronica ce n'era pochina e il baldo giovane chitarrista spadroneggiava – bel ragazzo, però).
forse giusto che i pezzi famosi risultino quasi faticosamente riconoscibili, così sussurrati e, mi è parso, accelerati; l'impressione complessiva è a tratti divertente, ma piuttosto superficiale. non che li avessi poi seguiti molto, ma certi bei pezzacci cavernosi avevano una grandiosità un po' malata che si stagliava su altre cose new wave: di tutto ciò non v'è più traccia.
concerto sul palco piccolo, e non si era neanche scomodato il gotha dei dark milanesi, quelli che ci aspettavamo in alta uniforme.

ormai dovremmo cominciare a tirare le somme di tutte queste tournée di vecchie band…
vediamo, dando 10 agli wire del 2003 (ma pare che anche la settimana scorsa fossero ugualmente in forma, e dire che gli anni passano):
sisters of mercy 5
damned 6
stranglers 7
killing joke 8
siouxsie 8 (media dei 3 concerti visti dagli anni 90 a oggi)
tuxedo moon 9
sempre parlando di gente che ho visto suonare ben dopo i tempi del loro massimo fulgore, potremmo contare anche i bauhaus nel… 98? voto 11, se non ho mitizzato nel ricordo.
in anni recenti ho colmato le mie lacune pure relativamente ad ancor più anziani mostri sacri: iggy, tom waits, neil young, tutti tostissimi.
e nella categoria omini strani: julian cope, robyn hitchcock,stan ridgway, jonathan richman, arrivati in solitaria, ma senza deludere.
dunque il bilancio non è poi così negativo: la serie «rose e le vecchie cariatidi» continua…

wroclaw puppet theatre

ringrazio anna castagnoli per aver segnalato da barcellona cosa succede di imperdibile dietro casa mia: ero così impegnata a evitare i molesti clown di strada (il quartiere ne è periodicamente infestato) da non accorgermi delle iniziative su bruno schulz. le ho perse tutte – oggi doveva esserci ancora la mostra (ci saranno state stampe originali del libro idolatrico?) ma il posto è rimasto chiuso – tranne lo spettacolo teatrale. meravigliosamente polacco: bombette e abiti polverosi, banchi di scuola, fantasia e claustrofobia.  la scena con i libri che volano e e il letto del vecchio padre in sanatorio sono indimenticabili.  a questo punto dovrei dire qualcosa di sensato sulla finzione teatrale che diventa al quadrato con le marionette, sul fatto semplice e geniale che le marionette sono i fantasmi, sul piacere di veder ricostruito un mondo con quattro telai di legno, poche luci e i gesti giusti (magici nel senso che vanno molto al di là della loro reale portata), sul fatto che su qualche sito americano ho letto «fra kafka e chagall» è mi è sembrato avere un senso, ma ho ancora mal di gola e voglio ritagliarmi mezz'oretta di veglia per leggere bruno schulz…

domani è il 30 gennaio

data nefasta della storia irlandese. alla tv cult dà il film bloody sunday, io invece sono andata al dal verme (nella finora inesplorata sala piccola) a sentire paul brady.
credo abbia trovato il pubblico un po' troppo timido ma non si è certo lasciato smontare: nonostante avesse il raffreddore ha sfoderato il suo bel vocione e ha cantato da solo un'ora e mezzo.  pur non essendo uno dei miei irlandesi preferiti – le sue canzoni sono molto descrittive, quotidiane nelle emozioni che evocano, poco visionarie – si è fatto apprezzare, soprattutto nel vecchio pezzo sugli operai irlandesi in inghilterra nothing but the same old story e nei pochi traditional: il concerto si è concluso con una trionfale homes of donegal.
(ovviamente ci sono stati anche momenti di chitarrismo sfrenato apprezzato dagli intenditori.)