2 cose di musica

è un periodo in cui gli ascolti sono quasi inesistenti (ma spero di rimediare con viaggio di lavoro milano-roma andata e ritorno in giornata in treno, ammesso che il collega chiacchierone non chiacchieri per 9 ore).
stasera però ho sentito la radio mentre cenavo e ne ho ricavato:
– che a sanremo c’è stata una bella canzone di nada (qualcuno poteva anche dirmelo);
– che ho un bel sentire e risentire la cover di patti smith di are you experienced (pur bella e superannisettanta, e appropriata, certo, chi altri potrebbe avere il diritto di cantare yes I am, è persino un po’ ovvio), ma la mente corre sempre alla versione di caresse e sickmob (e su youtube si scopre che il video era girato nel giardino di jarman a dungeness).
la bambina di genesis p-orridge oggi dovrebbe essere questa graziosa circa ventisettenne. sul personaggio paterno si può pensare quel che si vuole, eppure ancora oggi – che abbiamo paura della nostra ombra, figuriamoci dei bambini – non trovo affatto sgradevole l’operazione. anzi, spero che caresse sia felice di avere quella testimonianza di una se stessa piccola e fiera e bellissima. (pare però che non possieda una copia del 12" originale: quasi quasi mi viene voglia di mandarle la mia, con dedica.)

ps le avventure della famiglia P in america.

berlino: musica

Berlinflyerscome io abbia potuto non accorgermi che il 25 aprile mick harvey era in città, dopo tanta assidua consultazione dei siti appositi, resta un mistero (e non sarebbe stato forse meglio vederlo con lisa germano al babylon, invece che evenualmente il 18 a legnano, senza lisa germano? ohibò).
noi invece, com’è come non è, ci siamo trovati davanti a quei talentuosi minorenni dei blondelle (non ci credo assolutamente che hanno diciannove anni, è impossibile), e l’ambiente del magnet dava la piacevole illusione di scoprire qualcosa, un po’ come chi avesse conosciuto mick jagger alle medie, magari. e invece il chitarrista è il figlio di dave stewart! comunque sono molto più esagitati e spettinati che sul sito, meritano una qualche fiducia. (indagini successive hanno rivelato che il disco è bello e che suonano al plastic l’11 maggio.)

un altro mistero tipicamente berlinese è come possa kaminer continuare da anni a fare russendisko nell’inesausto divertimento generale, e prima di tutto suo.  io non ci credevo tanto, prima di vedere (e di zomparci sopra anch’io) la micropista del kaffee burger stipata all’inverosimile di ragazzone giovanissime e bionde e ragazzi gradevolmente imbranati, tutti impegnati a ballare ska russo come se fosse l’ultima occasione al mondo. 

terzo mistero: chi è pedro? com’è fatto?  perché abbandona il suo negozio aperto nel bel mezzo di un sabato pomeriggio? perché i vicini si mobilitano a cercarlo come se questi tre italiani fossero i primi aspiranti clienti da mesi? mah.
(a proposito di negozi di dischi, una segnalazione per la guida della clup: il palazzo della bergmannstrasse in cui suppongo si trovasse l’independent recordstore, segnalato a p. 348, è stato demolito.)

sul concerto di john cale

di lunedì scorso al rainbow, ho da dire che mi è piaciuto di più rispetto all’ultima volta; ne ho apprezzato la compattezza, la mancanza di nostalgie e insieme quegli elementi sonori che in una certa prospettiva sembravano comporre una summa degli anni 70, quelli belli.
ma forse ero io senza nostalgie, senza aspettative di questa o quella canzone (a parte venus in furs ovviamente), senza nemmeno flashback alla primavera di 15 anni fa in cui L – era lei la fan di cale, non io – mi trasportò a bologna a vedere un concerto del tour immortalato in fragments of a rainy season.
io ero qui, a quasi 40 anni, lui era qui, appena compiuti i 65, andava tutto bene.
e alla fine (quando solo io, g. e un dandy dal foulard a pois eravamo rimasti davanti alla transenna, increduli della mancanza di un bis) è apparso sul palco il burbero benefico tecnico del suono ora fidanzato con quella nostra amica dalla quale, parecchi anni fa, comprai gli stivali che avevo ai piedi lunedì sera. non sarà proprio per questo che è stato detto tout se tient, eppure…

la recensione l’ha fatta spider
l’aria l’ha imbottigliata garnant
gli altri presenti potrebbero compilare la set list, così, la mandiamo a hans, no? (ma quella cartacea chi se la sarà presa, alla fine?)

jarvis cocker

Jarvisalbum
giovedì sera ai magazzini generali è stato veramente ultra-cool, non saprei come altro definirlo. (ne volevo dire già ieri sera, ma poi ci è arrivato in casa un amico di p. mollato di recente dalla fidanzata, che cerca di riprendersi organizzando un viaggio in india e gira con un cartone di primitivo di manduria nel bagagliaio della macchina – si è dovuto aiutarlo a bere il primitivo di manduria.)
dunque sono molto contenta che y. mi abbia telefonato per andare a sentire jaaarvis, sia perché io e lei non ci vedevamo da più di un anno sia perché il concerto è stato proprio bellissimo, lui è una magnifica rockstar che ti ipnotizza con i gesti delle sue mani quasi da creatura marfan, altissimo (per cui io, pur essendo vicina, l’ho visto benissimo per tutto il concerto) ed elegante nella sua camicina marrone con la giacca di tweed della moglie (o magari non era della moglie, ma è vero che aveva l’abbottonatura da donna), tanto compassato nelle chiacchiere tra un pezzo e l’altro, da cui si è ricavata una dose oltraggiosa di umorismo britannico per una sera sola, quanto intenso nelle canzoni – tutto l’album solista, comprese le 2 b-side e il brano nascosto – che partivano precisi e impeccabili, scandite da luci a led con lieti motivi retrò da lungomare di brighton.
delizioso l’affetto di jarvis per i suoi occhialoni da ex sfigato – con una faccia così, non vai da nessuna parte se non hai una personalità veramente speciale. un modello per generazioni di imbranati.

bis finale: satellite of love.
jarvcast

per una giornata grigia

– sul sito di boo hewerdine ci sono tanti mp3, fra cui graceland dei bible (via fingertips guide to free mp3s).
finora potevo vantarmi di non aver mai mai mai messo in un post il testo di una canzone, dunque è il momento di sgarrare (è persino meglio oggi di vent’anni fa).

Would I give you money?
I don’t know
the free-est things in life are best
and so, put me to the test
now…

And when I die
will you build the Taj Mahal?
wear black every day of your life?
I doubt it

You will never see Graceland…

All my wanting, all my waiting, all my working
all my wickedness
for all my yearning, inside I’m shutting down

You will never see Graceland…

– kristin hersh e un walking problem che potrei avere anch’io (e non ho neanche un cane). confermo che sentendo musica in cuffia si zompa più volentieri nelle pozzanghere.

they might be giants non ti lasciano mai solo: fanno podcast, webradio, persino le suonerie per il telefono (mi piacerebbe tanto avere phone phone phone).

1969

è l’anno di nascita di badly drawn boy, visto ieri sera affrontare la sua data italiana per il tour filospringsteeniano di born in the uk con una tale emotività che la gente invece di seccarsi è stata comprensiva.  si è proclamato pissed off perché la chitarra era fucked up, ha interrotto il concerto per andare a fumare e calmarsi, ha detto che eravamo un pubblico splendido, si è dimenticato thunder road prima del ritornello e l’ha piantata lì, se l’è presa perché uno dal suddetto pubblico gli ha gridato get a grip, ha detto che eravamo un pubblico splendido, ci ha raccontato che era distratto perché col tour si perde il compleanno della figlioletta…
per me è il berretto, è impossibile stare sotto i riflettori con un berretto di lana, sfido chiunque a non innervosirsi.
comunque in coda a the shining ha fatto un breve medley con the first picture of you dei lotus eaters, il che per me è valso la serata (astenersi facili commenti malevoli).  quasi quasi gli compravo la tea towel – mai visto un tale articolo come gadget da concerto. (certo è la band meno glamour mai vista nella storia, e se ne sono viste.)

1969, però, è anche il bellissimo disco di julie driscoll ristampato quest’anno, trovato e sentito oggi.