sono passati già una decina di giorni da quando il fluido viscoso del romanzo nuovo di michele mari , finito con grande concentrazione durante un fine settimana, mi ha risputato in un mondo in cui se vai in centro a cercare un libro non trovi il libro ma ti prendi un gran raffreddore, poi guarisci, poi devi installare un videoregistratore, poi ti stranisci per il caldo improvviso, poi non trovi il tempo di ripensare a quello che hai letto, poi se hai tempo preferisci cercare pennelli per il trucco su ebay eccetera.
il secondo libro comunque l'ho fatto arrivare da ibs (primo acquisto da ibs in vita mia), era milano fantasma, volume illustrato di edt dove il testo di mari naufraga un po' nelle tavole eterogenee e spesso (stranamente?) molto colorate di velasco vitali. un libro secondo me non tanto riuscito, ma non capisco se è solo il progetto grafico che non mi aggrada o se proprio nel loro senso quel testo e quelle immagini sono poco compatibili.
resta però un fatto inquietante: finché michele mari continua a scrivere di cose che mi interessano – mitologia del rock, parigi e benjamin, la stazione centrale, l'infanzia – non capirò mai se i suoi libri mi piacciono sul serio o se non faccio che inseguire il suo metodo nel rapporto con la realtà, questo precisare una folla di dati per poi vederne emergere un senso occulto e delirante ma a quel punto inequivocabile. la smetta, mari, al limite faccia come del giudice, che mi è sempre piaciuto perché scrive di cose di cui non so un accidente… la mia prova del nove sarà leggere filologia dell'anfibio, che dovrebbe essere sul servizio militare (ma siccome temo sia ambientato dalle mie parti, ancora una volta non concluderò granché).
per tornare al libro – il primo – mi sa che ci siamo giocati l'unica chance da qui all'eternità di veder comparire robyn hitchcock come personaggio di un romanzo (italiano, per di più). sì, nell'intreccio di testimonianze idiosincratiche che dovrebbero comporre una sfuggente, oscura verità sul rapporto fra syd barrett e i suoi ex colleghi (e qui devo dire che speravo il libro esagerasse un po', alla fine, invece lascia il lettore alle sue più o meno soprannaturali intuizioni) appare per ben due volte l'uomo che, da cambridge allo spazio profondo fra dylanismo, verdura e insetti, più di ogni altro ha tenuto accesa la torcia barrettiana. (se siete in vena potete ascoltarlo cantare dominoes.) c'era a suo tempo anche una certa somiglianza fisica: barrett più bello, ma confrontare la foto dei cipollotti che si vede nel booklet di barrett e quella dei ravanelli, per esempio, fa una certa impressione.
ah, pure rh, come i pink floyd, ha scritto una canzone su vera lynn (youtube, lyrics).
e per tornare proprio ai pink floyd: approfondendo i temi di the wall, il libro con me sfonda una porta aperta. il film, visto al ginnasio, mi devastò abbastanza; nella mia classe poi c'era una delle sorelle c., adoratrici della band (della musica ma soprattutto di david gilmour, ai tempi incontestabilmente belloccio), che probabilmente mi registrarono i dischi. segue nella mia mente lo stemperamento del rancore rivoluzionario di the wall nella malinconia di when the wind blows. stacco fino alla notte in cui ho sentito per la prima volta alla radio l'urlo di careful with that axe eugene. dissolvenza del mio episodico interesse per i pink floyd. ritrovamento la settimana scorsa fra i vinili di una copia di atom earth mother non mia. riascolto dei dischi di barrett indotto dal libro. alla fine – come sempre, maledizione – ti tocca ammettere che è vero, il modo migliore per restare è scomparire.