corso salani,

regista e attore, è scomparso prematuramente in questi giorni. non ne avevo idea ma oggi ho sentito alla radio, a hollywood party, che era discendente della famiglia della casa editrice.

nella pila di libri da mesi in attesa dello scanner c’era anche il piccolo libro dei viaggi di gulliver (salani 1933). riduzione di alice massie, illustrazioni di may smith (tutta la collana dei piccoli grandi libri viene da una serie inglese, credo edita da humphrey milford)

Gulliver salani

a sight for sore eyes

dopo quietube, ecco readability.

«It’s a shame that such tools are even necessary. If you were creating a
site whose purpose is to provide articles to read, wouldn’t you want to
make it perform that task really well? Make the articles readable?
Rather than add features that degrade this performance? (I
know, you cynics; these sites’ fundamental purpose isn’t to provide the
news, but to make money for shareholders or the company, but I’m being
idealistic.)» (phil gyford)

che vogliamo dire dei pixies a ferrara

Marshall purtroppo ero in un posto un po' infelice (ai concerti si sta o vicino o lontano, a stare in mezzo non vedo nulla tranne quando salto, specie in una piazza acciottolata lievemente in discesa), però non mi lamento: la visuale appannata ha contribuito a farmeli ascoltare un po' come se fosse ieri, a parte che, intendendo ieri come il 1990 al rolling stone di milano, accanto non avrei avuto uno che usava l'iphone per riconoscere jane says fra i pezzi diffusi durante l'attesa… ma non divaghiamo.
dunque non si sa se allora ero più vulnerabile o se il ricordo si confonde con l'asprissimo disco live alla bbc, ma in confronto, stavolta, ho sentito un concerto tondo come le bolle luminose che c'erano sul palco, gradevole come i colori da caramella delle luci (belle – la band che attacca con cecilia ann in controluce fa un figurone, epica).
certo, urlato e frenetico dove doveva, ma – complice forse il volume non alto imposto dal centro città; comunque si sentiva bene – elaborato, rodato, rifinito come un classico. ciò che, giustamente, è.
mi è piaciuto tanto, e ti pareva; più peculiare sarebbe a questo punto ricordarsi se l. ha mai finito il video di bone machine (era bone machine?) per girare il quale era necessario un uccello morto e salire sul tetto del duomo con la sua camera vhs. un ricordo bizzarro che non mi ha mai abbandonato.

gruppo prevalente sulle tshirt: sonic youth.

setlist

viva david lovering

che un concerto venisse interrotto a metà per pressione sulle transenne non mi era mai capitato, neanche in stadi strapieni dove stavi in piedi pur senza sostenerti tanta era la gente. forse i pacifici romagnoli organizzatori avrebbero dovuto assoldare qualche energumeno in più… va be', ci abbiamo guadagnato una surreale conversazione su neil young fra kim deal e frank black.
comunque negli ultimi anni pare si vada di continuo a ferrara, e tutte le volte tempo bellissimo.

anfibi

Royal mail oggi in un negozio mi ha parlato una rana da giardino.

arrivata a casa ho trovato la mia copia di globe of frogs di robyn hitchcock, A&M 1988 (sì: pur non volendo darmi al completismo o a un impossibile collezionismo, ho deciso di colmare alcune lacune della discografia hitchcockiana. maledetto ebay.)

rosso floyd

sono passati già una decina di giorni da quando il fluido viscoso del romanzo nuovo di michele mari , finito con grande concentrazione durante un fine settimana, mi ha risputato in un mondo in cui se vai in centro a cercare un libro non trovi il libro ma ti prendi un gran raffreddore, poi guarisci, poi devi installare un videoregistratore, poi ti stranisci per il caldo improvviso, poi non trovi il tempo di ripensare a quello che hai letto, poi se hai tempo preferisci cercare pennelli per il trucco su ebay eccetera.

il secondo libro comunque l'ho fatto arrivare da ibs (primo acquisto da ibs in vita mia), era milano fantasma, volume illustrato di edt dove il testo di mari naufraga un po' nelle tavole eterogenee e spesso (stranamente?) molto colorate di velasco vitali. un libro secondo me non tanto riuscito, ma non capisco se è solo il progetto grafico che non mi aggrada o se proprio nel loro senso quel testo e quelle immagini sono poco compatibili.

resta però un fatto inquietante: finché michele mari continua a scrivere di cose che mi interessano – mitologia del rock, parigi e benjamin, la stazione centrale, l'infanzia – non capirò mai se i suoi libri mi piacciono sul serio o se non faccio che inseguire il suo metodo nel rapporto con la realtà, questo precisare una folla di dati per poi vederne emergere un senso occulto e delirante ma a quel punto inequivocabile.  la smetta, mari, al limite faccia come del giudice, che mi è sempre piaciuto perché scrive di cose di cui non so un accidente…  la mia prova del nove sarà leggere filologia dell'anfibio, che dovrebbe essere sul servizio militare (ma siccome temo sia ambientato dalle mie parti, ancora una volta non concluderò granché).

per tornare al libro – il primo – mi sa che ci siamo giocati l'unica chance da qui all'eternità di veder comparire robyn hitchcock come personaggio di un romanzo (italiano, per di più). sì, nell'intreccio di testimonianze idiosincratiche che dovrebbero comporre una sfuggente, oscura verità sul rapporto fra syd barrett e i suoi ex colleghi (e qui devo dire che speravo il libro esagerasse un po', alla fine, invece lascia il lettore alle sue più o meno soprannaturali intuizioni) appare per ben due volte l'uomo che, da cambridge allo spazio profondo fra dylanismo, verdura e insetti, più di ogni altro ha tenuto accesa la torcia barrettiana. (se siete in vena potete ascoltarlo cantare dominoes.)  c'era a suo tempo anche una certa somiglianza fisica: barrett più bello, ma confrontare la foto dei cipollotti che si vede nel booklet di barrett e quella dei ravanelli, per esempio, fa una certa impressione.
ah, pure rh, come i pink floyd, ha scritto una canzone su vera lynn (youtube, lyrics).

e per tornare proprio ai pink floyd: approfondendo i temi di the wall, il libro con me sfonda una porta aperta. il film, visto al ginnasio, mi devastò abbastanza; nella mia classe poi c'era una delle sorelle c., adoratrici della band (della musica ma soprattutto di david gilmour, ai tempi incontestabilmente belloccio), che probabilmente mi registrarono i dischi.  segue nella mia mente lo stemperamento del rancore rivoluzionario di the wall nella malinconia di when the wind blows.  stacco fino alla notte in cui ho sentito per la prima volta alla radio l'urlo di careful with that axe eugene.  dissolvenza del mio episodico interesse per i pink floyd. ritrovamento la settimana scorsa fra i vinili di una copia di atom earth mother non mia. riascolto dei dischi di barrett indotto dal libro. alla fine – come sempre, maledizione – ti tocca ammettere che è vero, il modo migliore per restare è scomparire.

nel salotto dei residents

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[teatro leonard da vinci, milano, 15.05.10]
una poltrona con i centrini, un caminetto con fuoco artificiale e sulla mensola altre fonti luminose: una vecchia abat-jour, un televisorino acceso su una nebbia grigia.  scenario lynchiano come i personaggi che appaiono nei 3 schermi rotondi a raccontare le loro storie di fantasmi.
i residents ora sono in 3: si presentano come randy alla voce, chuck alle tastiere e bob alla chitarra, mentre del quarto residente si parla come di un tale carlos tornato in messico a curare la mamma, stanco di 40 anni di vita rock'n'roll. l'attuale travestimento è il seguente: frontman mascherato da anziano in vestaglia (e questo, fra le strategie di sopravvivenza sul palco delle rockstar attempate, mi pare un vero colpo di genio), i muti strumentisti in tight con giacca di lamé rosso, maschere e parrucche dread nere, occhiali da saldatore (sembrano un po' degli insettoni). 
lo spettacolo procede più o meno così, inquietante ma colorato, stridente ma senza perdere il ritmo, una specie di miracolo gradito da un capo all'altro della nostra fila (da m., ascoltatore esperto che afferra le storie in americano e la bravura dell'allampanato chitarrista, all'altra m., bambina di dieci anni al suo primo concerto rock): sarà merito della sintesi residenziale – perfettamente messa a punto, suona sempre attualissima – fra elettronica, rumorismi, narrazione, sinistre filastrocche, citazioni pop (la canzone della coca-cola all'inizio, all I have to do is dream degli everly brothers) e western (six more miles di hank williams, bury me not on the lone prairie).  cronologicamente devono essere i genitori di tutte le cose che mi piacciono nello spettro: legendary pink dots <—-> stan ridgway.

ps: ho provato ha inserire il cd-rom di gingerbread man nel computer. viene visualizzato come un'applicazione classic: riposi in pace (non mi ricordo assolutamente più cosa ci fosse dentro).

i gatti persiani

il film di bahman ghobadi non sarà quel capolavoro che si dice ma è a tutti gli effetti il commitments iraniano (con finale iraniano però, sigh – tra l'altro c'è un'immagine che ricorda tanto donne senza uomini, sarà un caso).
si disperde un po' nei ritratti delle varie band, però questo aspetto documentario (e forse anche quello un po' videoclipparo) a me è piaciuto. sia pure per costrizioni produttive, risulta film di genere misto, poco definibile, che nel seguire i personaggi nei più improbabili anfratti cittadini ha un suo fascino anche al di là dell'argomento interessante/straziante (la vita quotidiana giovanile a teheran).  e la realizzazione ruvida nasconde sentiti omaggi al Cinema (il prologo autobiografico, le 2 citazioni di al pacino/de palma).
hanno ragione quegli snob degli inglesi a dire che la musica è derivativa, comunque io mi sono un po' affezionata ai take it easy hospital, forse proprio per la fragilità della loro musica in quel contesto poco accogliente. chissà in inghilterra cosa combineranno… auguri.

(nel frattempo, di panahi ancora nessuna notizia)

sight and sound aprile 2010

strano fenomeno, forse mi sono rimessa a leggere riviste di cinema: un duel qua, un positif là, un filmtv se capita (segnocinema no, per adesso :o).

s&s dunque cosa ci proponeva nel penultimo numero:
– articolo di iain sinclair su fritz lang e M, abbastanza interessante
recensione dell’ultimo film di chris petit
– una mostra dei bellissimi poster polacchi a londra
– la scoperta che il regista di un film ufficialmente fra i più brutti del mondo, the howling II (memorabile però a suo modo la colonna sonora), ha più illustri precedenti
– struggimento per non aver ancora visto questo film su hitchcock
ottimo articolo sulle varie versioni cinematografiche di alice
[insomma, avrei potuto guardarmelo online, ma riesco a concentrarmi solo su carta, non ce n’è.]

e dopo aver letto pure la simpatica fanzine milanese gratuita fermoimmagine (seria come avrei potuto farne – e ne facevo – da giovane) mi trovo a voler leggere alice in sunderland di bryan talbot, che dite, mi può piacere?