ultimamente in treno

mi capitano cose bizzarre. stamattina, complice la giornata piovosa, all’edicola della stazione mi sono concessa un acquisto particolarmente voluttuario (e, confesso, blog-indotto).  salita in carrozza, dunque, sono sprofondata nella lettura di dampyr finché, verso la fine dell’albo – forse perché il treno si era fermato – ho alzato gli occhi. e invece del piatto familiare paesaggio che mi aspettavo ho visto una gola verde invasa da una nebbia spettrale e un fiume, in basso, sotto il ponte di ferro su cui il treno sostava.
– che era successo?
a.  mi ero addormentata e stavo sognando
b. il treno aveva cambiato inopinatamente percorso
c. avevo sbagliato treno.

perché non sono vegetariana

mi scuso per il titolo pomposo alla bertrand russell, questa cosa che ogni post deve avere un titolo, per motivi d’archiviazione, mi fa impazzire.
comunque, penso d’averlo capito: razionalmente non avrei nulla in contrario, tant’è vero che di carne ne mangio pochissima.  però non sopporto di impormi da sola un divieto che diventi una norma assoluta (molto simile a quelle religiose che aborro), dal momento che sono ben lungi dall’averlo interiorizzato in modo che sia un comportamento spontaneo e non un’autoimposizione.  questo anche senza contare il trauma del distacco da una tradizione cultural-alimentare che valuto come positiva (per la verità, uno dei pochi casi in cui valuto una tradizione come positiva).
dunque, per ora il principio del piacere continuerà a prevalere ogni volta che mi si parerà dinanzi una fetta di salame buono – perché se è cattivo, invece, ovviamente va boicottato, e mangiarlo sì che sarebbe immorale.

la mia vita da consumatrice

bene, la brutta sorpresa di questa settimana è che sky si è messa a trasmettere i canali di cinema solo con la codifica nds, pertanto ci toccherà accettare uno dei loro indesiderati decoder, cosa che faremo perché troppo pusillanimi per disdire l’abbonamento continuando orgogliosamente a guardare solo canali polacchi e sloveni.

delusioni anche dal giro fatto da h&m oggi pomeriggio: sono entrata perché pioveva, e mi sono trovata a constatare che il revival anni 80 è arrivato a livelli perniciosi. forse lo aborro perché è la prima volta che vedo il fatale ritorno storico di vestiti di quand’ero già adulta, ma trovo riprovevole il dilagare del BOLERINO come indumento di massa. (e non vedo di buon occhio neppure la scarpa scollata di jeans con wedge in sughero, né le magliette larghe di floscio poliestere lucidino.)

ieri sera

ho visto uomini in kilt camminare in corso buenos aires e ho sentito vittorio de seta dire che per  la cultura cinematografica (dico io – stava parlando in particolare dell’arte dell’inquadratura) «la televisione è stata come la diga del vajont».
in questo momento mi viene da pensare che, se qualcuno pensa d’impressionarmi con il blando e tedioso canto religioso al megafono che si ode in questo momento fuori della finestra, dovrebbe giusto dare un’occhiata alla sicilia dei corti di de seta. non vedo che senso abbiano, oggi, certe esangui manifestazioni rituali pubbliche – ma sarò io che, come dicevo, non ho (mai) digerito bene (il venerdì santo).

che altro ho fatto questa settimana? ho ripensato a john foxx, che è tornato in attività ma pare faccia ambient music, accidenti a lui. risentita a volume altissimo la raccolta dai primi tre dischi degli ultravox (questo già sabato scorso, forse).
ho ricevuto un pacco di amazon, scoprendo così che sul dvd della tempesta di jarman ci sono due corti come extra, che nella biografia di marianne faithfull ci sono un sacco di foto, che what’s welsh for zen è un libro enorme.
consiglio l’ordinare così, un po’ a caso, per procurarsi il regressivo equivalente adulto di una sorpresa natalizia.

una sera che sarebbe stata better spent in un posto senza elettricità (ne conosco uno)

capita che p. mi ha telefonato dalla sala stampa di sanremo: vi si trova per un caso della vita a lavorare, oggi e domani, con una squadra di persone che snobbano sanremo ma allo stesso tempo sono infantilmente divertite di trovarsi sul petto un pass all areas… allora, siccome mi hanno detto che la presentatrice aveva un vestito notevole, ho acceso la tv. ma ho tentato di compensare questo gesto col portare avanti contemporaneamente una frenetica sperimentazione di programmi p2p.
a questo punto potrei addirittura cominciare ad abbandonarmi a pensieri come «preferivo pippo baudo» (e sicuramente non mi dispiace acquisition), ma per fortuna tra poco comincia carnivàle.

metodi per imparare l’inglese utilizzati nei tempi antichi

seguire appassionatamente alla televisione il corso della bbc follow me, condotto da francis matthews.
ricopiare a mano le parole degli lp dalle buste interne (molto scomode da fotocopiare – tra l’altro parliamo di un’epoca in cui la tecnologia della fotocopia su carta comune, non termica, era ancora agli albori).
fermarsi al liceo al pomeriggio per usufruire di apposito corso integrativo bisettimanale.
farsi mandare a un soggiorno studio tjaereborg (mi pare) di tre settimane a londra, durante il quale non si spiccicherà una parola d’inglese però ti faranno fare dei temi.
surriscaldarsi le orecchie con le cuffie per carpire le parole delle canzoni di sylvian e dei prefab sprout, che non ci sono sulle buste degli lp.
imparare dalle canzoni molteplici elementi fraseologici totalmente inutilizzabili in qualsiasi conversazione quotidiana.
dare alla facoltà di lettere un esame di lingua inglese.
con questa scusa, farsi comprare dai genitori un vocabolario decente.
ostinarsi a leggere nme e melody maker senza capirci un piripicchio (come si sa, i giornali sono i testi più difficili da leggere in un’altra lingua).
consultare con perplessità i libri dell’arcana con le canzoni testo a fronte.
chiedersi perché chi presenta le canzoni alla radio rifiuta di imparare la pronuncia dalle canzoni stesse.
andare a vedere le rassegne di film in lingua originale senza capire nulla.
fare di tutto per rendersi ridicoli parlando con musicisti di madrelingua inglese.
andare a lavorare per la reader’s digest association.
leggere caterve di libri inutili in inglese e neanche un classico della letteratura.

it was 14 years ago today

non proprio oggi (25 marzo, sarebbe). ma a proposito di giardini, e come prayer for rain, riesumo ora un branetto d’epoca vagamente panico o, alla peggio, dannunziano.

Piove molto lentamente adesso, senza rumore. Non come lo scrosciare di sabato, che accade solo in un giardino dove ogni foglia ascolta o sulla pensilina della stazione, sopra la carriola di legno vecchio. A tratti piove un po’ più forte, mai abbastanza forte per i rumori della città (possono deciderlo solo i temporali di agosto). I miei capelli amano l’umidità, quindi la mia testa ama l’umidità, che chissà quando ha corrugato questo quaderno trovato in un cassetto non mio. La mia testa – le mie orecchie questa volta – ama i giardini, perché sussurrano piano come un uomo non potrebbe mai fare e perché sanno muoversi stando fermi. La mia testa – i miei occhi questa volta – ama la nebbia, piccola o grande, e la freschezza che si sente fin dentro le palpebre, il verde che viene incontro e i rami scuri che stanno prudentemente lontano. La mia testa – il naso questa volta – ama sapere che i fiori vengono dalla terra, ma lo stesso sono fiori, e non terra. La mia testa – la bocca questa volta – vuole rinfrescarsi senza bere, parlare senza dire niente. Le mie dita sono fredde nella pioggia, ma sono sottili e bianche e dure e contente di somigliare alla lucidità delle foglie. E io sono le mie mani e la mia pelle e i miei capelli e le mie sopracciglia, come tutte le donne, come non tutti gli uomini. E mi conosce il gatto che cammina con me nel giardino bagnato, non chi pretende da me la risposta giusta.
Non mi spaventa il freddo, mi spaventa ciò che è troppo chiaro e i pomeriggi in cui non c’è più niente da vedere. Non voglio chiudere gli occhi per imbarazzo e impotenza, voglio avere spazio per battere le ciglia, vedere quanto luccicano i sassi piccoli, non essere costretta a guardare sempre in su. Tutto dovrebbe piovere per sciogliere la rigidità cui non si rimedia solo avendo spazio (bisognerebbe forse avere tempo). Tutto dovrebbe essere mobile e abbastanza scivoloso per cambiare forma senza cambiare, e non lo è mai. Non bisogna correre dietro a niente, solo avvolgersi in spire sempre più larghe e risparmiare fiato per farlo condensare sul vetro freddo della finestra.

l’aria che tira

in queste mattine all’arena di milano c’era una manifestazione sportiva per le scuole (medie, credo). oggi ero già ben oltre l’ingresso, impegnata a chiedermi perché al parco sempione ferva il montaggio di baracchini da luna park in quaresima, quando mi è giunta all’orecchio una voce stentorea all’altoparlante che annunciava a beneficio delle scuole un concorso, consegna elaborati a fine marzo, premi ecc.
tema del concorso: «da grande farò l’imprenditore».
mi sono sentita improvvisamente in un film di terry gilliam, non so se mi spiego. oggi pomeriggio ho pensato di averlo sognato, e sono andata a cercare un link. (non che un link dimostri la realtà di qualcosa, come il cinema di fantascienza ben c’insegna, ma è sufficiente a finire di deprimermi, per il momento.)