
the pretty things. (cover design by phil may himself.)
(NOT listening to: ultra orange & emmanuelle seigner – ultrabufala.)

the pretty things. (cover design by phil may himself.)
(NOT listening to: ultra orange & emmanuelle seigner – ultrabufala.)
due dischi nuovi per una sera di novembre:
blonde redhead, 23
einstürzende neubauten, alles wieder offen.
a margine di quest’ultimo noto che:
– il libretto dei testi, con le sue frasi brevi e la traduzione interlineare, mi fa l’effetto istruttivo di un manuale di tedesco per principianti
– parti del pezzo allegramente intitolato nagorny karabach sono state registrate al teatro valli reggio emilia e in parte al palast der republik di berlino, che dunque in questo caso sono indistinguibili
sto anche facendo una playlist per una ipotetica festa che non ho nessuna intenzione di dare. però avere una playlist così è indispensabile. (è in uno stadio ancora assolutamente primitivo, ci metterò anni.)
presentava questa fitta concentrazione di concerti britannocentrici.
venerdì: nella rassegna mito, london sinfonietta suonava sergeant pepper. e fin lì. però è stato tenuto accuratamente nascosto, direi quasi con determinazione, che sarebbe intervenuta una fitta delegazione di personaggini quali residents, marianne faithfull, jarvis cocker, beth orton, non-so-più-chi ma soprattutto robyn hitchcock. (ebbene sì, robyn hitchcock ha cantato due canzoni dei beatles a rho, avrei potuto esser lì per la modica somma di 5 euro + biglietto del metrò, e invece non c'ero.)
sabato: art brut al parco, concerto supersponsorizzato, dunque gratuito. è stato molto divertente sentire dal vivo l'originale di mio fratellino ha scoperto il rock'n'roll dei 3 allegri ragazzi morti, solo 3 settimane dopo il concerto dei medesimi. si è saltellato parecchio.
il batterista lavora in piedi, i chitarristi fanno due personaggi di tales from the crypt e con la bassista rotondetta è facile identificarsi. eddie argos ha i colori improbabili dell'inglese di ascendenze mediterranee – somiglia all'attore alfred molina, nota di p. – e ha cambiato le parole di emily kane perché dopo il successo della canzone l'ha incontrata (non è più vero che non la vede da 10 anni e non sa dove abita); citazione di there's a light that never goes out sul finale della medesima.
domenica: david sylvian al conservatorio, per essere lì invece si è dovuto rompere il porcellino di ceramica. scaletta simile a quella di stoccolma. il bassista col kilt.
p. insiste che quelli di sylvian sono concerti belli ma freddi (c'è chi li considera francamente noiosi). ora, è chiaro che tutto questo variare gli arrangiamenti delle canzoni e trattare ink in the well quasi fosse uno standard jazz e ricamare la trama sonora raffinatissimamente e stare del tutto immobili sul palco sarà sì professionalità ma anche timidezza, ogni fan di sylvian lo sa.
pur senza nostalgia (ah ah), perché i pezzi di snow borne sorrow sono ottimi, si viene per sentire la sua voce, e brilliant trees spogliata della religiosità della tromba trova una sua quotidianità, ghosts risorge più eterna che mai (non per ridurre la musica a triviali meccanismi psicologici, ma già faceva piangere quando non la capivamo, figuriamoci) in questo mondo sonoro di una coerenza ipnotica, mondo che sempre ruota attorno ai suoi poli introspezione emotiva / esplorazione sonora, intensità vocale / curiosità strumentale, e allora viene da chiedersi se l'autonomia di un mondo così (pur ricco di divagazioni, improvvisazioni, tentazioni, ma solo al suo interno) sia una buona cosa. farci un giro ogni tanto è bellissimo.
(nuova per me, ovviamente c’è da anni e anni):
eclettica, da lunedì a venerdì alle 19 su rockfm; podcast.
fatto sta che una canzone dei beatles è finita in una pubblicità, il tabù è infranto.
(here comes the sun, concessa dalla harrison foundation per una compagnia di assicurazioni)
li adoro.
ma ho una predilezione per la canzone it’s my life di bon jovi. ci sarà un motivo.
ovvero il fittissimo libretto della compilation north by northwest, sul postpunk di manchester e liverpool, è l’unica cosa che sono riuscita a leggere in tutta la settimana (un bel calvario lavorativo come le due precedenti), dopo aver riascoltato i dischi domenica. il cofanetto l’avevo preso un anno fa, ma è tornato alla ribalta dopo l’edizione italiana del libro di simon reynolds e la visione di control – ora resterebbe da vedere 24 hours party people, benché sia di winterbottom, e da leggere il libro di paul morley.
link saltati fuori nel frattempo:
rocklist.net
rock’s backpages (già noto, ma ecco per la prima volta il pernicioso pensiero: perché non abbonarsi?)
e, non essendosi eventualmente ancora stufati delle liste nonché della grafomania e loquacità di morley:
a literary top ten
the best cover for your ipod
morley on ian curtis (anche audio)
(bonus: 11 paragraphs about morley’s book)
[ps da domenica per un paio di settimane, commenti chiusi moderati, causa spamwave]
lunedì, breakfast on pluto di neil jordan con un audio talmente cavernoso che a stento si capivano i dialoghi.
sabato, lupin III il castello di cagliostro con l'audio a un volume tale da uscire tutti (i dieci presenti nella grande sala) piuttosto sordi.
mercoledì, berlin di lou reed, con l'acustica del teatro degli arcimboldi a permettere di apprezzare tutti i dettagli dell'enorme organico presente sul palco, eppure si rischia di emozionarsi meno che ad andare al cinema (se è questo che si cerca): per me personalmente è proprio un po' troppo, il professionismo sovrasta le canzoni, pur bellissime. punto massimo: caroline says II.
da un articolo apprendo che:
– rispetto alla versione eseguita a brooklyn non c'è antony
– reed lo chiama «un film per le orecchie»
– wharol voleva farne un musical
e mi quadra tutto perfettamente.
(sui video di schnabel non dico nulla perché avevo un posto d'angolo da cui non vedevo alcunché, a parte l'ossessivo riapparire di emmanuelle seigner.)
si ascolta lee scratch perry e si è cambiato lo sfondo scrivania: con questo.