ovvero: industrial anatomy.
sense and sensibility
molto buffo vedere la «tecnologia semantica» di liquida attribuire un «umore» ai miei post:
il post qui sotto, infatti, avrà pure il difetto di essere poco emotivo ma per la cronaca – casomai qualcuno si fosse preoccupato – vi dirò che è di ottimo umore, come del resto ero io quando l'ho scritto (to', metto pure una faccina :o) mentre in questo post l'umore è un po', come dire, perplesso… quand'è che lo studio dei significati nella comunicazione in rete è finito in collisione/collusione con lo studio dei sentimenti?
ma non tutto il male vien per nuocere, riflettiamo sull'aggettivazione (ciò che va in pasto alla «tecnologia semantica»): se avessi detto «solenne» invece di «seria e severa», e avessi precisato che l'effetto del marmo era «sereno» nel pomeriggio «limpido» di fine settembre, forse in effetti il post sarebbe stato più chiaro… e probabilmente meno bad.
(oppure, sopprimo proprio gli aggettivi e non se ne parla più)
a fresh start
fra la tinteggiatura dell'appartamento (e relativo salasso monetario) e la tazza dell'upim (1,99) ha preso piede, mio malgrado, un irresistibile processo di revisione domestica che non ha lasciato libro indisturbato, disco trascurato, calzino non rivoltato, bioccolo di polvere intatto. il grande dio acaro si è vendicato potentemente, ma sta per tornare in riposo (spero).
mai capitata una cosa del genere: dove mi si posano le dita, ribalto l'esistente. non ricordo da quanti anni non avevo una simile sensazione di spazzar via ragnatele dalla testa (perché di questo alla fine si tratta). ho persino affrontato il cassetto delle garanzie degli elettrodomestici e il ripostiglio degli stracci. e continuo a ritoccare, scartare, sistemare come se avessi in testa un qualche ordine che va assolutamente realizzato. qualcuno mi fermi…
ps del resto il gomasio era scaduto nel 2007.
viaggio dell’altro giorno: tilt-shift photography
dopo essere inciampata in questo video su berlino, volevo riflettere un po' sulle immagini ottenute con obiettivi tilt-shift (così di moda che c'è addirittura un'applicazione per iphone per applicare un effetto simile a una foto normale), dove il gioco di fuoco e prospettiva restituisce ai soggetti fotografati proporzioni alterate (mi pare di notare, ma potrei sbagliarmi: i palazzi sono più grandi delle persone, ma non quanto nella realtà; sono a fuoco solo i dettagli più piccoli e la profondità è drasticamente ridotta).
ecco una pagina di link (alcuni purtroppo scaduti; pare comunque che abbia iniziato olivo barbieri), a cui si si possono aggiungere per esempio jeffrey richard stockbridge e vincent laforet.
non ho trovato però molti commenti sull'estetica della finta miniatura:
qui si ipotizza che «attraverso tali distorsioni ci viene regalato un momento in cui possiamo renderci conto di quanto siamo piccini, di quanto minuscole possano apparire persino le strutture più grosse, e questo momentaneo cambiamento di prospettiva è liberatorio»;
là che «a volte si proietta un'immagine del nostro mondo molto più grande di quanto dovrebbe essere… questo tipo di fotografia […] è una riflessione sul fatto che a volte abbiamo bisogno di ridurre la dimensione delle cose e osservarle come se non fossero poi così importanti. immagini di questo genere ci aiutano a guardare ciò che ci circonda con un po' di tranquillità in più, dovuta al sapere che le cose non devono necessariamente essere tanto grandi».
ci si ritrova insomma nel solito rassicurante senso di dominio dello spazio dato dai plastici, con il loro «effetto giocattolo» grazioso per definizione.
ma sul bisogno di fingere la finzione, che vogliamo dire? non è un po' regressivo, passato l'effetto sorpresa?
sarà perché ieri sera ho visto up in televisione, però mi sembra che il mondo là fuori sia davvero tanto grande e l'operazione di ridurlo proprio tramite immagini scattate dal vero sia un po'… riduttiva.
la manona di cattelan
davanti alla borsa di milano si inserisce perfettamente nella piazzetta dall'architettura marmorea d'epoca fascista: solo da vicino rivela come dettaglio spiazzante non tanto le dita mozzate (da un arto reminiscente delle gigantesche statue romane nasce un saluto fascista mutilato in sofferto gesto di scorno), quanto le linee quasi fumettistiche del disegno (vene, unghia).
sabato pomeriggio appariva molto più seria e severa della borsa stessa, bardata di striscioni di ferragamo e luci rosse sulle statue, per una sfilata di moda.
se si lasciasse in permanenza il cattelan e si togliessero le auto, secondo me la piazza ci guadagnerebbe assai.
il libro oggetto
visitando la mostra dei libri d’artista della collezione consolandi, un po’ di tempo fa (qui lo slow blogging si fa spinoso al punto che purtroppo, nel frattempo, il noto collezionista milanese è mancato), davanti ad alcune delle opere più recenti ho avvertito un ostinato senso di disapprovazione: dove un libro preeseistente viene usato come materia prima, blocco scultoreo, senza alcuna relazione con il contenuto del libro stesso, l’operazione mi colpisce come superficiale e di una brutalità gratuita; insomma, io non ci sto.
(inserirò esempi qui* appena ripesco il catalogo dal riordino delle scartoffie domestiche; durante il quale, ieri sera, ho ritrovato questo intervento di annie françois, autrice di la lettrice, per poi scoprire che è morta l’anno scorso.)
su come dall’opportuno apprezzamento dell’estetica dell’oggetto libro si sia passati all’exploitation, al libro oggetto – ben oltre i mobilieri che a scopo esposizione rilevavano vecchi libri di un editore per cui lavoravo – ho trovato oggi questo articolo (dalla rubrica consumed di rob walker, sul new york times).
il manifesto milanese di cattelan
siccome non lo vedremo affisso, lo ospitiamo qui, per non smentire la precedente familiarità con l’opera.
ma, voglio dire, a parte l’ignoranza comunale che impedisce di accogliere qualsiasi interrogativo suscitato dall’immagine… milano è già tanto sgradevole, non vedo che potesse fare di male il manifesto. o forse è proprio questo il problema: non ci possiamo permettere la goccia che fa traboccare il vaso.
visto il film di herzog al palestrina
(ecco un altro appassionante post su una cosa successa una settimana fa, ma del resto il film era a venezia nel 2009… a uscire ci ha messo un anno!)
my son, my son, what have ye done è prodotto da david lynch e, caso strano, sembra un film di david lynch: straniamento, senso di orrore non tanto legato al fatto di sangue quanto alle paturnie dei personaggi, presenza di un nano, presenza di grace zabriskie (e già che ci siamo perché non dare un'occhiata alle sue… sculture?).
chloe sevigny porta uno strano golfino peloso beige su shorts molto corti ed è fra i pochi interpreti dalla recitazione, diciamo, naturale. curiosità: udo kier e grace zabriskie erano entrambi nel cast di my own private idaho e even cowgirls get the blues di gus van sant.
nyc storefront models
di randy hage su flickr.
graficamente, bilbao
si è distinta per:
il motivo curvilineo sulle strisce pedonali
il carattere «basco» (in poche minime varianti) di quasi tutte le insegne. magari se avessi visitato il museo di cultura basca al casco viejo ne saprei di più; da google invece si evince poco, se non che bisogna chiedere a thierry arnaut, il quale si è studiato il carattere e ne commercializza versioni elettroniche. a me non ricorda tanto delle lapidi medievali quanto un gusto smaccatamente anni settanta, chissà perché. comunque non è una gran bellezza.
quanto alle sonorità della lingua basca: non pervenute. in 5 giorni trascorsi fra città e montagne (bazzicando il più possibile locali e mezzi pubblici), neanche due persone che si parlassero in euskara, maledizione.
(agli avidi di manifestazioni di orgoglio basco non resta che prendere nota delle bandiere che denunciano la dispersione dei prigionieri eta in carceri lontani; e forse qualche graffito indipendentista in zone molto periferiche di bilbao.)

