una chitarra color pistacchio, due native digitali e il bello della new wave

oggi riso in bianco e streaming del disco nuovo dei wire dal sito del guardian.

martedì 22 al bloom di mezzago (dove non andavo da quasi vent'anni, me lo ricordavo tutto diverso e mi sa che era diverso – uno spazio tipo capannone mentre ora è molto più accogliente) il concerto è stato si può dire complementare a quello che vedemmo nel 2003 (agli albori delle mie ricerche sulle rockstar attempate): allora più breve, tiratissimo, con ancora bruce gilbert alla chitarra (implacabile seppur veramente anziano); stavolta con più spazio per collegare le varie anime della musica dei wire (punk, dark, divagazioni strumentali, pop: kidney bingos!) la compresenza delle quali – nonostante ci siano ancora, decenni dopo, critici bacchettoni che non lo capiscono – è la sostanza stessa di quel che si suole chiamare new wave.
stavolta ero abbastanza vicino per vedere la luce vispa negli occhietti azzurri di colin newman (da queste parti amato anche in quanto produttore di if I die… I die dei virgin prunes).
come da manuale, buzz in the eardrums alla fine (non la canzone, il rumore che ti accompagna fino a casa).

ah, i «bambini» cui accenna la recensione di rockol erano in realtà due toste dark lady della prima media (la piccola m. l'avevamo già incontrata nel salotto dei residents), presissime dal concerto senza mollare mai i loro telefonini. il pubblico è stato gentile e, su richiesta del nostro amico zio di m., le ha lasciate passare davanti. ma diciamo pure che c'era una platea di posapiano: non che sia nostalgica del pogo, ma neanche un saltello durante i pezzi più veloci… bah.

utile ricerca su youtube: la band al rough trade east lo scorso gennaio (con lo stesso chitarrista di questo tour, tale matt simms)

l’avaro del teatro delle albe

all'elfo-puccini non c'ero ancora stata, è uno spazio sobrio, gradevole (appena appena contorto), che sa di nuova ristrutturazione, con un atrio dove mette allegria vedere l'animazione di una multisala a scopo teatrale e non cinematografico (senza i popcorn, per esempio).  la cavernosa galleria di corso buenos aires ne viene solo in parte riscattata – speravo meglio – forse anche per i lavori in corso sul marciapiede.

Casetta-cassetta martedì sera, l'arpagone interpretato da ermanna montanari ha dilettato senza troppi traumi anche una mezza scolaresca di adolescenti.  ma sì, perché dopo un inizio veramente cupo e disturbante – lei torva come una rockstar incazzata in diabolici stivaletti margiela, il continuo rimescolamento della scenografia da parte della servitù, i personaggi giovani dal viso malaticcio e i gesti di meccanica marionetta – la commedia prende il sopravvento.  pur grottesca e amara, ovviamente: la casa ridotta a forziere per il denaro, la famiglia a dinamica economica, un lieto fine che non riscatta la mediocrità dei personaggi.
il testo è proprio quello di molière nella traduzione di garboli ma de-enfatizzato (come ci si può aspettare) dalla continua messa-in-discussione, messa-in-evidenza e mise-en-abîme della messa in scena.
[che poi a volte lo trovo un pochino triste, che non si possa più fare uno spettacolo di prosa innocente, con un allestimento tradizionale, ma è la nostra condanna. e comunque, a vedere l'inizio dello spettacolo con i finti tecnici di scena che tirano i tendaggi, arriva il brivido.]

(altri accenni alle albe: 1, 2, 3, 4.)

che vogliamo dire dei pixies a ferrara

Marshall purtroppo ero in un posto un po' infelice (ai concerti si sta o vicino o lontano, a stare in mezzo non vedo nulla tranne quando salto, specie in una piazza acciottolata lievemente in discesa), però non mi lamento: la visuale appannata ha contribuito a farmeli ascoltare un po' come se fosse ieri, a parte che, intendendo ieri come il 1990 al rolling stone di milano, accanto non avrei avuto uno che usava l'iphone per riconoscere jane says fra i pezzi diffusi durante l'attesa… ma non divaghiamo.
dunque non si sa se allora ero più vulnerabile o se il ricordo si confonde con l'asprissimo disco live alla bbc, ma in confronto, stavolta, ho sentito un concerto tondo come le bolle luminose che c'erano sul palco, gradevole come i colori da caramella delle luci (belle – la band che attacca con cecilia ann in controluce fa un figurone, epica).
certo, urlato e frenetico dove doveva, ma – complice forse il volume non alto imposto dal centro città; comunque si sentiva bene – elaborato, rodato, rifinito come un classico. ciò che, giustamente, è.
mi è piaciuto tanto, e ti pareva; più peculiare sarebbe a questo punto ricordarsi se l. ha mai finito il video di bone machine (era bone machine?) per girare il quale era necessario un uccello morto e salire sul tetto del duomo con la sua camera vhs. un ricordo bizzarro che non mi ha mai abbandonato.

gruppo prevalente sulle tshirt: sonic youth.

setlist

viva david lovering

che un concerto venisse interrotto a metà per pressione sulle transenne non mi era mai capitato, neanche in stadi strapieni dove stavi in piedi pur senza sostenerti tanta era la gente. forse i pacifici romagnoli organizzatori avrebbero dovuto assoldare qualche energumeno in più… va be', ci abbiamo guadagnato una surreale conversazione su neil young fra kim deal e frank black.
comunque negli ultimi anni pare si vada di continuo a ferrara, e tutte le volte tempo bellissimo.

nel salotto dei residents

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[teatro leonard da vinci, milano, 15.05.10]
una poltrona con i centrini, un caminetto con fuoco artificiale e sulla mensola altre fonti luminose: una vecchia abat-jour, un televisorino acceso su una nebbia grigia.  scenario lynchiano come i personaggi che appaiono nei 3 schermi rotondi a raccontare le loro storie di fantasmi.
i residents ora sono in 3: si presentano come randy alla voce, chuck alle tastiere e bob alla chitarra, mentre del quarto residente si parla come di un tale carlos tornato in messico a curare la mamma, stanco di 40 anni di vita rock'n'roll. l'attuale travestimento è il seguente: frontman mascherato da anziano in vestaglia (e questo, fra le strategie di sopravvivenza sul palco delle rockstar attempate, mi pare un vero colpo di genio), i muti strumentisti in tight con giacca di lamé rosso, maschere e parrucche dread nere, occhiali da saldatore (sembrano un po' degli insettoni). 
lo spettacolo procede più o meno così, inquietante ma colorato, stridente ma senza perdere il ritmo, una specie di miracolo gradito da un capo all'altro della nostra fila (da m., ascoltatore esperto che afferra le storie in americano e la bravura dell'allampanato chitarrista, all'altra m., bambina di dieci anni al suo primo concerto rock): sarà merito della sintesi residenziale – perfettamente messa a punto, suona sempre attualissima – fra elettronica, rumorismi, narrazione, sinistre filastrocche, citazioni pop (la canzone della coca-cola all'inizio, all I have to do is dream degli everly brothers) e western (six more miles di hank williams, bury me not on the lone prairie).  cronologicamente devono essere i genitori di tutte le cose che mi piacciono nello spettro: legendary pink dots <—-> stan ridgway.

ps: ho provato ha inserire il cd-rom di gingerbread man nel computer. viene visualizzato come un'applicazione classic: riposi in pace (non mi ricordo assolutamente più cosa ci fosse dentro).

alla fine stasera non sono andata al cinema

perché c'erano delle zucchine da utilizzare – quindi ho fatto la zuppa e ho cenato – ma anche perché ero già andata:
– sabato a vedere l'uomo nell'ombra di polanski, di cui ho goduto assai la cornice editoriale oltre al thriller isolano (come shutter island ma con le dune – polanski ama le dune, o forse tecnicamente in cul-de-sac non c'erano dune, ma il paesaggio è simile). può sembrare un normale giallo uomo-comune-in-una-storia-più-grande-di-lui, ma il tocco di polanski per l'ambiguità e certi tocchi comici… ineguagliabile.
adesso p. non fa che citare la battuta: «non ho mai capito a cosa serve il vino bianco».
– domenica a vedere fantastic mr fox di wes anderson. a milano si può vederlo solo andando al plinius di pomeriggio, ma ci sono più occhialuti fan di wes anderson che bambini. qui mettiamo una foto a beneficio dell'archivio miniature:

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e un'altra a memoria della mia identificazione con l'opossum:

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ora non mi rimane che leggere il libro di roald dahl (in italiano furbo, il signor volpe). 
questi 2 film, nonché il film precedente che ho visto in sala, l'impressionante profeta di audiard, hanno tutti la colonna sonora di alexandre desplat, che prima non avevo mai sentito nominare. capita sempre così.
– lunedì pensavo di andare a teatro e sono finita di nuovo al cinema.  fanny & alexander in questi giorni stanno facendo, al teatro i,  2 spettacoli del loro lavoro sul mago di oz: emerald city e him, entrambi ispirati a questo cattelan. ci sono arrivata ignara del fatto che stavo per rivedere quasi tutto il film di fleming con l'audio doppiato in diretta (in lingua originale) da marco cavalcoli vestito da hitler, in ginocchio davanti allo schermo. la cosa mi ha segnato.
(ah, forse vado al cinema anche domani)

sabato sera alla triennale

per il festival teatrale uovo, i dewey dell (rampolli di castellucci della societas) vestiti così
nel grande atrio buio sembravano proprio rendere omaggio al periodo d'origine del museo.

I am 1984 di barbara matijevic e giuseppe chico ovviamente mi è piaciuto, con la sua natura di percorso pseudoscientifico generazionale fra le olimpiadi, guerre stellari, la nascita della apple e il balletto classico.

Uovo20109

grazie a dio per i circoli arci

ovvero: aggirarsi per il territorio nell'imminenza delle elezioni regionali.

venerdì alla casa 139: shearwater + david thomas broughton
al secondo posso solo rimproverare di cantare troppo come antony, ai primi di echeggiare suoni di sylvian (ma visto che sylvian non fa più canzoni, potrei anche evitare di lamentarmi) e che il susseguirsi di brani tutti con lo stesso crescendo stufa un po' .
una serata interessante, ma ma non mi addentro in dettagli perché ogni possibile reazione misticheggiante (per la quale in fondo sarei anche portata) mi è stata stroncata dall'icastica frase di p.: «tira un'aria fra gli anni 70 e cielle». una vera cattiveria, no?

sabato alla scighera: paolo botti in albert ayler memorial barbecue. questo fatto che paolo botti il jazz lo suona con viola, banjo e dobro mi rende appetibili anche faccende alquanto ostiche.
qualche settimana fa lo vedemmo, con altra formazione repertorio e con ospite betty gilmore, nella chiesetta del parco trotter; ulteriore occasione l'8 aprile, anche per andare a esplorare un posto qua sotto casa: la fonderia napoleonica.

(ps spero non sfugga la leggera ironia del titolo)

le pulle di emma dante,

Le Pulle foto Giuseppe Di Stefano

visto sabato scorso, è stato l'ultimo spettacolo del crt al teatro dell'arte (nel palazzo dell'arte di milano).

ne avevo sentito parlare ma non ho trovato informazioni esaurienti su questo cambiamento di sede (troppo spesso paludosi e poco utili i siti italiani, specie quelli istituzionali), tranne quelle derivate una conferenza stampa del 2008 sul ritorno della gestione del teatro alla triennale, per fine locazione, e su una futura nuova sala per il crt in piazza abbiategrasso, ovvero vicino al loro storico salone di via dini (v. trafiletto di repubblica).

come lo spettacolo, il sito di emma dante è pieno di bambole assai inquietanti, andate a vedere.