sul binario

battuto da pioggia e vento, in attesa di un treno che non arriva e non dà segno di sé (niente campanella, passaggio a livello aperto), mi chiedevo dove fosse il ferroviere. a vederlo arrivare dal parcheggio della stazione sotto la pensilina male illuminata, una scatola di cartone sopra la spalla e un ombrello leopardato nell’altra mano, sembra un’entrata in scena da teatro dell’assurdo. la stazione, perso con la chiusura della biglietteria il fascino ordinato dei particolari in legno e ferro primo novecento, è un deserto devastato di macchine che non funzionano, graffiti e arredi sopravvissuti a stento al vandalismo, tocco finale un inutile e orrendo sottopassaggio tra gli unici due binari. lui è rimasto da solo, è rimasto perché abita con la famiglia al piano superiore del fabbricato. deve controllare che il personale addetto ai servizi di manutenzione e pulizia faccia il suo lavoro, e basta. la notte sente i rumori dei teppisti che passano a scassinare il distributore di biglietti, oppure la mattina trova i rifiuti di chi si è fermato a dormire lì. lo si può vedere che dà una passata di candeggina al pavimento, perché gli addetti non puliscono abbastanza e lui ha paura che la bambina si prenda «un virus». quasi tutte le domeniche c’è qualche disservizio che dà adito a infinite lamentele del ferroviere, se gli si dà corda, contro la privatizzazione prodiana che ha moltiplicato la selva degli appalti moltiplicando le occasioni di corruzione e disfunzioni. ora tutti i treni passano sul secondo binario, quello lontano dall’edificio, perché a deviare sul primo perdevano tempo, e trenitalia, che paga alle ferrovie il pedaggio «sul ferro», avrebbe avuto il diritto di chiedere i danni per il ritardo. così almeno dice il ferroviere della stazione abbandonata, col suo accento del centro-sud che suona sempre stranamente caloroso, lì tra la montagna incombente e il lago. (e non ci vuol molto a capire che è un po’ un nostalgico di «quando i treni arrivavano in orario».)

la prima manifestazione dell’anno

be’, a una pigra come me, lo sdegno civile fa bene: si cammina. e di gente a camminare, oggi a milano in difesa della legge 194, ce n’era TANTISSIMA, con in più il soddisfacente bonus sisters are doin’ it for themselves che insomma, non è mica tanto da dare per scontato.
(adesso però mi accingo passare una domenica asociale, come più mi si confà.)

il primo live dell’anno

già che si è qui a struggersi lavorando come asinelli nella metropoli lombarda, perché negarsi una serata a prima vista un po’ senile ed elettorale, in realtà più che altro gradevolmente milanese – enzo jannacci non l’avevo mai visto dal vivo; martedì sera accompagnava dario fo nella sua tragicomica dichiarazione di amore-odio verso la città di cui vuole diventare sindaco, e mi è sembrato così bravo e commovente – con la sua ottima band – che alla fine ero contenta di aver trovato posto solo seduta per terra sotto il palco.
quanto alla candidatura del giovane ottantenne, che mi ha sempre lasciato assai perplessa, forse l’altra sera ci ho intravisto un senso: una specie di forza della disperazione, la possibilità di «votare un pazzo», come dice lui, in contrasto con le misurate proposte dei concorrenti candidati, che non faticano ad apparire inadeguate se davvero ci si immedesima un po’ con gli enormi problemi di questa città. (sì, sto prendendo troppo seriamente le primarie.)

i giardini di via confalonieri

sono un punto in cui la città perde compattezza, svela le parti di un meccanismo. anche standoci poco a leggere il giornale su una panchina (con gli occhi alquanto annebbiati dall’allergia) si nota che gli edifici intorno sono come delle quinte. a est il vuoto di uno spazio ancora da costruire, vacant lot, terrain vague circondato di plastica arancione, e poi tre livelli di costruzioni di diversa altezza, dalle case più vicine ai palazzi e grattacieli di via m. gioia; a sud via de castillia, una strada che per quasi tutta la sua lunghezza ha case solo un lato, e non fa parte di un rassicurante reticolo viario perché dietro c’è la breve area confusa (vecchi cortili? magazzini? orti?) che dà sulla stazione garibaldi; a ovest quel che resta della fabbrica dalla cui demolizione sono nati i giardini – anche questa, la «stecca», una costruzione filiforme, isolata, che non si appoggia a nient’altro. e intanto il rombo della linea due della metropolitana, questo sì regolare, a rammentare il «sotto».

per una coincidenza

tra gli ultimi dischi comprati prima delle vacanze c’era anche la raccolta doppia del laibach anthems (doveva essere in offerta – erano anni che non pensavo ai laibach). e un paio di settimane dopo, ecco un’imprevista sosta a lubiana. a lubiana questo è l’anno della biennale di grafica organizzata dal mglc, il centro internazionale per le arti grafiche. alla mostra di grafica slovena alternativa degli ultimi 40 anni, al castello di tivoli, c’era un’intera parete di volantini e manifesti del neocollettivismo, dell’nsk (v. anche qui) e dei laibach, che sfortunatamente non ho fotografato. quanto alla biennale vera e propria alla sede della tobačna ljubljana (dove c’è anche un bizzarro museo del tabacco), andrebbe vista anche solo per l’inedita esperienza di visitare una mostra respirando costantemente un leggero, piacevolissimo odore di tabacco (tutto l’ambiente ne è completamente pervaso). la mattina di ferragosto, quando siamo partiti da lubiana, c’erano quindici gradi, pioveva e le foglie degli alberi al castello cadevano ingiallite. e anche stamattina fa un freddino…