Hey, babe, it’s the 4th of July

Concerto di Bruce Springsteen allo stadio San Siro, Milano, con vista sulla città sullo sfondo. La scena mostra il palco, i musicisti e una folla di fan entusiasti.

Quale miglior modo di riprendere la mia storica serie sulle rockstar attempate: Springsteen a San Siro, 3 luglio 2025. Il quarantennale dello storico concerto cui non riuscii ad andare nella mia disadattata adolescenza, lacuna che evidentemente né il suo concerto del 1988 a Torino né i millemila concerti di altra gente visti in seguito poterono colmare, se, abbandonata a me stessa in una torrida estate milanese, decido di comprarmi un biglietto d’avanzo al terzo anello e dirigermi colà, solo perché posso farlo, uscire di casa e prendere la metropolitana. Fossi stata sul prato avrei potuto portare un cartello, la citazione ce l’avevo pronta: We learned more from a three minute record than we ever learned in school (in mancanza di ciò, massima solidarietà al reduce che innalzava tra le prime file la richiesta fallimentare ma commovente – di più, straziante – di Lost In The Flood). Anche perché il concerto di tre giorni prima si era aperto proprio con No Surrender, il pezzo migliore di Born In The U.S.A. (ma come, e Cover Me, e Bobby Jean? ok, ok). E invece no: ieri sera il concerto comincia con My Love Will Not Let You Down, buona outtake del 1982 (pubblicata nel 1998, quindi estranea al mio nucleo formativo) che somiglia in alcuni punti della melodia a Chimes of Freedom di Dylan, e quindi incornicia perfettamente il concerto. Poi lo straniante salto all’indietro: al terzo anello si sente così male che quasi non ci si crede, Prove It All Night e Darkness On The Edge Of Town così, uno-due. Quattro pezzi ci saranno da Darkness, cominciando con lo skyline di Milano ancora illuminato dal sole. Poi il nucleo politico del tour, una dozzina di canzoni interpretate in chiave visceralmente antitrumpiana, compresi The Promised LandMy HometownThe River; nulla da Nebraska ma Youngstown da The Ghost of Tom Joad (con l’amore che ha quest’uomo per il suo paese e noi per lui, cosa vuoi stare a ricordargli che la mania di esportare la democrazia ce l’hanno sempre avuta, eh). E in tutto questo si perdonano anche i pezzi blandi più recenti, la band li porta su. In mezzo la gioia di Hungry Heart, un settantacinquenne con le mani da bambino, fra la gente. Because The Night, sì grazie (con la spocchia di chi sapeva che era di Springsteen prima di almeno 30.000 dei presenti, e guardava Fuori orario anche per quello). Badlands, che non so perché l’ho avuta in mente per giorni prima del concerto. Thunder Road cantata a squarciagola, la so ancora tutta dopo quarant’anni di stretta dieta post-punk inglese. L’encore riporta ai concerti di una volta, con le cover di rock ’n’ roll, l’enfasi sulla band, meno scherzi fra loro e il ricordo di chi non c’è più (Danny Federici e Clarence Clemons – ma al sax c’è suo nipote).
Sei pezzi in comune con la scaletta dell’88, forse un’ora in meno di concerto, una giusta proporzione – delle persone con cui c’ero andata, una è morta, l’altra l’ho persa di vista da decenni. La maglietta che avevamo preso l’ho ancora, c’è scritto Made in the USA. Le foto ai concerti mi vengono sempre con i fantasmi dentro.

rockstar attempate: l’aggiornamento definitivo

un riassunto del rock mancuniano dal punk al post-punk a madchester avrebbe avuto luogo nella pianura friulana. premessa per una spedizione con qualcosa di assurdo e inevitabile (nonché una riscossa del mio entusiasmo per i concerti vagamente in declino). ad azzano decimo avrei dovuto chiedere in giro chi fosse l’anima gemella/mente malata, insomma il curatore, responsabile di aver introdotto – in un festival già eterogeneo – l’alienitudine di questi inglesi del nord non meramente deviati da un tour già in atto ma attivamente deportati tutti assieme dentro l’assolato weekend di un piccolo paese italiano per collegarli a tanti speaker con il marchio di un noleggio musicale di pordenone.

io e p si pensava di doverci mescolare a una folla assiepata, di dover affrontare attese in piedi, di dover un po’ soffrire per il privilegio di vedere buzzcocks, the fall e inspiral carpets nella stessa sera (privilegio dubbio per via dei set inevitabilmente corti, ma va be’). invece:

Azzano Decimo deserta

così fino a 15 minuti prima del concerto. poi pubblico variabile dalle 50 persone fino a non più di… 300? 500? mah. pubblico dunque strettamente locale, immagino. zero aura da festival, ma alcune magliette topologicamente corrette: 1 degli smiths, 2 dei joy division (vincono comunque le magliette dei black flag, che ci sono sempre: 3 compresa quella di p).

ma passiamo all’aggiornamento, ovvero quello su mark e. smith. che ha cinquantasette anni ma ne dimostra settanta. che arriva piuttosto elegante portando un quaderno/cartelletta di fogli manoscritti e sul grande palco si aggira incessantemente sfogliando i fogli, manomettendo gli altoparlanti, abusando dei microfoni, blaterando i suoi proclami come un predicatore inascoltato e incompreso (chi ci capisce mai nulla, tantomeno gli italiani), scambiando cenni d’intesa con la sua band dedita nel frattempo a costruire l’ossessione sonora che è the fall, dai due batteristi sull’orlo dell’attacco cardiocircolatorio a mrs smith impassibile alla sua minitastiera korg con tacco a spillo bianco e tre borsette (avevo già notato nei video che quando suona all’aperto tiene la borsa in spalla; stavolta ne aveva una grande, una a tracolla media e una piccolina che appendeva al supporto del sintetizzatore).

MES si aggira

niente, una macchina da guerra che suona implacabile pur nella ristrettezza temporale del set. fosse durato di più, a momenti mi spodestava gli swans per il titolo questo-non-è-un-concerto-è-un’esperienza-mistica.

MES se ne va

totalmente enigmatico ma non ostile, persino sorridente, MES appare dimesso nell’agire sul palco ma assai soddisfatto della sua creatura sonora, tribale e ipnotica quanto le parole che l’accompagnano rimangono ostiche e solipsistiche.
prima si era pure seduto un po’ con il quaderno su quella sedia rossa, pareva un insegnante che corregge i compiti in classe. il tamburo a destra l’ha rovesciato lui.

il concerto visto da un forumista

il concerto visto da un profano

di fianco a me in prima fila si era insinuato un ragazzino che manifestamente apprezzava il concerto nonostante la giovanissima età. a un certo punto però mi ha chiesto: «ma è ubriaco»?

dieci anni di blog e l’ennesimo concerto di nick cave

(a occhio e croce l’ottavo dall’89) potrebbero/dovrebbero farci riflettere sul tempo che passa, ma qui siamo abbastanza allergici a tali bilanci.

il blog – di cui sto rivedendo gli archivi per eliminare link obsoleti ecc. – è in standby per motivi sia di rete sia miei: per condividere un link c’è twitter; per una breve notazione di vita quotidiana c’è instagram (e mai che io riesca a integrare bene tutti questi feed); per mettere nero su bianco riflessioni più approfondite non è il momento (se il cervello fosse una batteria, sarebbe in una fase di accumulo senza ridistribuzione). l’archivio però mi serve, l’archivio è essenziale. internet sarà anche bello per scambiarsi istantanee, ma io lo preferisco sempre come biblioteca infinita.

di nick cave già si favoleggiò:

qua (sempre all’alcatraz, 2004)

qua (che poi era il concerto semiacustico di modena – garnant, dove sono i tuoi archivi di splinder? :-))))

e qua (nel frattempo è pure spuntato il video del concerto del 92, che si vede anche Blixa fumare sul palco)

insomma non lo vedevo da otto anni abbondanti e nel frattempo mi è passato qualsiasi snobismo: concerto favoloso. se fossi un tipo più espansivo avrei gridato delle cose al mio adorato barry adamson, che mai avrei pensato di vedere in carne e ossa e invece eccolo lì.

scaletta di milano:

We No Who U R
Jubilee Street
Tupelo
Red Right Hand
Mermaids
The Weeping Song
From Her to Eternity
West Country Girl
God Is in the House
Into My Arms
Love Letter
Higgs Boson Blues
The Mercy Seat
Stagger Lee
Push the Sky Away
We Real Cool
Papa Won’t Leave You, Henry
Deanna
Do You Love Me?

jonathan demme

va a finire che lo seguo più che altro per motivi musicali: aggiudicatosi incondizionata fiducia negli anni 80 con stop making sense e qualcosa di travolgente (film bello dotato di bella colonna sonora), mi aveva poi deliziato con storefront hitchcock, episodio non secondario nel ritorno di fiamma della carriera di robyn hitchcock a fine anni 90 (poi, come si sa, rh appare anche in manchurian candidate e rachel getting married).

sabato scorso al milano film festival, demme ha detto che riprendere musica dal vivo gli pare la quintessenza del cinema: c'è già qualcosa di appassionante che succede, e non bisogna far altro che coglierlo. così bravo come regista di ogni genere di film (capace di fare suo ogni film di genere), demme è insomma un documentarista nell'anima.
fra i suoi documentari di argomento non musicale avevo già visto the agronomist, e la settimana scorsa ho recuperato il film su jimmy carter, man from plains (colonna sonora di alejandro escovedo), ammirata da come riesce a fare film su brave persone intelligenti e di buona volontà senza cadere nell'enfasi, guidato da una specie di istinto: è molto diretto ma molto preciso, acuto, concede spazio alle emozioni senza sopravvalutarle, racconta efficacemente senza affabulazioni fasulle.  viene persino un po' da generalizzare: che meraviglia gli americani, quando sono così.  anche nel parlare, stesso stile: spontaneo nell'entusiasmo e gentilissimo, ma concreto, dritto al punto (pur nella strana triangolazione del dibattito al teatro strehler fra le domande vaghe e sgrammaticate della curatrice della rassegna e quelle intellettuali di guadagnino).

per tornare alla musica, approfittando della personale del milano film festival ho scoperto che il primo film di demme, la pellicola di exploitation carceraria (femminile) caged heat, prodotta da roger corman, aveva la colonna sonora di john cale (sempre interessante, e il film non è affatto male – un delirio da cui escono alcuni bei personaggi: peccato vederlo massacrato da una videoproiezione orrenda).
e poi sono andata alla prima del terzo film che jonathan demme dedica a neil young. avevo visto il primo, neil young: heart of gold, ottimo, ma che nella sua ambientazione nashvilliana faticava a conquistarmi completamente.* neil young journeys è molto diverso. doveva chiamarsi neil young life, ma a ny sembrava troppo pomposo. il motivo è subito chiaro: troviamo young nella cittadina dell'infanzia omemee (la quale, diciamolo una volta per tutte, non è in north ontario) che sale su una macchina d'epoca – seguendo il fratello, anche lui su una macchina d'epoca –  per andare a toronto, dove terrà un concerto solista alla massey hall, luogo dove notoriamente si esibì con successo nel 1971 (la registrazione è stata pubblicata su disco solo da poco). i ricordi d'infanzia sulle galline dei fratelli young e sulle figlie dei vicini si alternano alle canzoni del concerto, girato con tantissimi primi piani e dettagli del viso, spesso catturati con microcamere montate sul microfono o dentro l'harmonium: qui neil young è vecchio, vecchissimo. forse più vecchio di quel che è in realtà, nel ripercorrere la sua vita attraverso le canzoni (scaletta 2011, scaletta 1971) di nuovo solo su quel palco, solo con i suoi strumenti e una specie di totem indiano. dentro il documentario anche una canzone documentario, ohio, che demme illustra con riprese d'epoca, nomi e ritratti – sapete gli strazianti ritratti da annuario scolastico americano – delle 4 vittime di quando la guardia nazionale sparò a una manifestazione contro la guerra del vietnam. didascalico? no: è per chi non lo sapesse, perché sicuramente tanti non lo sanno – è passato molto tempo. il concerto è bello e jonathan demme segue la sua teoria: lo segue da vicino, ma anche lo lascia scorrere. arriva fino al punto di tenere intera una ripresa della microcamera dove evidentemente l'effetto speciale è… uno sputo del cantante: una chiazza sullo schermo che cambia forma e colore trasfigurando l'immagine – da un incidente meccanico una conseguenza psichedelica – e conservando l'unicità di quel momento su quel palco.

 

* curiosamente, a causa dell'ambientazione teatrale e della parola prairie tendo a intrecciare il ricordo di quel film – dove young presenta il disco prairie wind – con il quasi contemporaneo ultimo film di altman, radio america (a prairie home companion), nonostante nashville e il minnesota siano piuttosto distanti. sarà che il minnesota confina con l'ontario.

diamanda galás e milano

quasi 5 anni dopo, ieri sera ecco diamanda calcare di nuovo – con passo quasi taurino – il palco dell’auditorium di milano, grazie alla rassegna mito settembremusica (allora fu nell’ambito di una certa rassegna «stranieri fra tutti i popoli del mondo», tanto per dire che nessun promoter prende da solo l’iniziativa di chiamarla – anche se poi ci va un sacco di gente).
stavolta molto più gioviale però, quasi allegra fra un brano e l’altro, e luci più vivaci (ma non esageriamo: toilette implacabilmente nera). non si è incupita né quando il copioso personale del teatro si è rivelato incapace di portarle dell’acqua (ha dovuto rimediare il pubblico) né quando io ho tossito rumorosamente su un bis (l’aria condizionata).

trattavasi del recital the refugee, ma il primo pezzo viene annunciato come testo di cesare pavese: a quanto ho carpito delle parole, dovrebbe essere questa poesia, interpretata quasi come un’aria lirica prima di procedere nell’abituale – ma sempre sorprendente – selva di suoni, dai blues più rauchi alle canzoni francesi rivoltate con terribile sarcasmo, a rumori animali-vegetali-minerali che fanno sempre temere per le corde vocali di lei. meravigliosa.

ritrovata recensione del corriere del concerto che vidi nel 1994 (credo venisse per la prima volta in italia grazie alla benemerita rassegna «suoni e visioni», quella abolita dalla provincia due anni fa… chissà se ora dalla finanziaria verrà abolita la provincia stessa?).
dg venne a milano anche nel 97, al teatro lirico – come testimonia l’amica t. – a eseguire malediction and prayer nell’ambito delle ambiziose celebrazioni per il cinquantenario del piccolo teatro.

[ndr: i link barrati testimoniano l’evoluzione dei paywall]

my life in the bush of ghosts

ancora e a maggior ragione oggi che si consuma world music come acqua fresca – oh, gli insopportabili festival estivi in cui l’importante è far risuonare delle percussioni – e che sentiamo tutti le voci, magari in simbiosi con un auricolare da cui possono sprigionarsi trillli e richiami a ogni momento, mi è sembrata imprescindibile l’offerta dei negozi feltrinelli del disco di brian eno e david byrne a euro 5,90, faro in un sabato piovoso e piuttosto inquieto.
trattasi della ristampa rimasterizzata ed estesa del 2006 (le differenze su wikipedia). io l’ho preso perché mi pare di aver avuto quest’album solo in cassetta e poi in un insoddisfacente scaricamento da itunes, ma chi si volesse far bastare l’atavico vinile può trovare gli interessanti materiali del libriccino e gli extra del disco –  qualcosa di più come testi e immagini, dei brani invece un campione – sul sito.

già che c’ero mi sono pure documentata un poco su bruce conner, all’epoca autore di un corto di found footage per il brano mea culpa (il più familiare del disco alle mie orecchie, in quanto inestirpabile sigla di una certa trasmissione radio d’alta lombardia).

getting over the 20th century (a luke haines update)

avevo un po' perso le tracce di luke haines, leader degli indimenticati auteurs, finché non ho letto che il suo volume autobiografico bad vibes. britpop and my part in his downfall era una lettura amena (e lo è – tipica scrittura britannica caustica e distaccata verso qualunque cosa, incluso l'autore; aneddoti da insider sulla scena inglese, ma anche capacità di sguardo più ampio sull'epoca 87-97; ora esce il secondo volume, post everything).
ho colto l'occasione per accostare al mio scaffalino di 3 album degli auteurs il primo disco dei black box recorder (trio dove non canta lui ma una ragazza), england made me – che nonostante la tipica influenza air da fine anni 90 si difende bene – nonché il recente album solista 21st century man.
sarò di parte, ma ne concludo che il mio coetaneo non delude le aspettative. potrei persino completarne lentamente la discografia, visto che mi mancano ancora 5 o 6 album.
faccio però fatica a immaginarmi che razza di libro sia questo: tim mitchell's truth and lies in murder park" (benben press) journeys into the mythology of the british singer-songwriter luke haines to conjure a fictional narrative with fragments of biography… mah.

una settimana di festival

  Kernel

una settimana fa, attirata dal kernel festival di musica elettronica e immagini digitali, lasciavo speranzosa la metropoli per andare a esplorare uno dei comuni dell'interland (il più infiltrato dalla camorra, dicono sempre alla radio).  bella la villona neoclassica che faceva da schermo alle proiezioni luminose, decisamente protagoniste (questa, per esempio, vista dal vivo non era affatto male) rispetto a esibizioni musicali non particolarmente memorabili – almeno fino a mezzanotte e mezzo, nella notte poi non so. quello che mi ha deluso è che il festival che doveva svolgersi «nella villa e nel parco» era invece confinato in un praticello delimitato da un lato dalla villa stessa e su tre lati da abominevoli transenne blu che, oltre a impedire di infrattarsi nei boschi come secondo me presuppone un festival di musica elettronica, toglievano completamente la visuale. niente da fare, la brianza ha colpito ancora (commento dei brianzoli stessi).

martedì 5 invece soltanto le zanzare del parco sempione hanno tentato di funestare il bellissimo concerto degli arcade fire, mentre l'arena pavesata di striscioni con l'assurdo titolo del milano jazzin' festival tentava di accogliere l'ambizioso suono (che su disco rischia sempre il troppo pieno e a volte mi stufa) di una band che ha passione e idee da vendere. quanto ai gruppi spalla, ho sentito solo la coda dei cloud control e il concerto gradevole dei white lies, ma gli arcade fire sono un'altra categoria (nel lessico famigliare, la categoria «concertone»). ottimo stare un po' lontani sulle gradinate di pietra esalante calore, in modo da vedere bene il palco con gli schermi per le proiezioni in alto, le 2 batterie e i componenti che passano da uno strumento all'altro. scaletta (+ crown of love, pezzo che non mi piace eseguito su richiesta di uno dei white lies):  non suonano certo ore – del resto, hanno fatto 3 dischi – ma la sequenza risulta intensa, con appropriato effetto catartico su rebellion, e ti dispiace veramente quando finisce. suggestione canadese, régine mi pareva vestita un po' da pattinatrice, con un abitino corto di paillette oro e stivaletti bianchi (?).

ieri sera, cari che non siete venuti al concerto di lou reed, vi siete persi solo un concerto senile e noioso – irriconoscibile anche la voce del nostro, molto incerta. la band non è risultata coinvolgente neanche nei momenti migliori; nei peggiori, batteria dalle tentazioni progressive e violino che ancora un po' ci suonava un minuetto di boccherini. nessuno più di me apprezza le esecuzioni poco ortodosse, ma qui non ha funzionato: quasi tutti i pezzi mi sono sembrati trascinati e allungati in esecuzioni assolutamente tediose.
ho apprezzato smalltown introdotta da un commosso (e/o un po' brillo?) ricordo di warhol, ho tollerato venus in furs cercando di non pensare alle incendiarie esecuzioni caleiane, sto tentando di dimenticare la sequenza acustica di sunday morning e femme fatale, imbruttite e svuotate. la cover di mother di lennon l'ho trovata imbarazzante.
la scaletta la trovate sul sito degli esperti italiani, che evidentemente vivono in una dimensione parallela non solo a noi non esperti, ma anche agli intenditori amici miei (sono d'accordo solo sull'esecuzione di sweet jane, anche se, ripeto, non ero andata in cerca di consolanti esecuzioni di pezzi noti.)
la medicina, ovviamente, sarebbe partire per uno di questi luoghi ameni.

 

 

sabato sera al miami

oltre al freschino dell'idroscalo, con un po' di fanghiglia che faceva festival nordico, e alla gradevole sensazione della presenza di tanta gioventù sveglia (che, era piacevole immaginare, il giorno dopo sarebbe andata a votare ai referendum) ho apprezzato la scoperta degli iori's eyes che mi sembrano una band da seguire – il primo pezzo loro che ho sentito era questo, ma non bisogna lasciarsi ingannare dalla tastiera così, per citare loro, 1982, perché le canzoni risultano dotate di un loro spessore versatile, come si può sentire da un live radiofonico acustico.
piaciuta meno la scelta dei concerti di punta dei due palchi (casino royale e marco parente) che ho trovato un filo retrograda per questo tipo di festival (anche se coerente con la varietà del programma).
in realtà non ho poi visto granché, vagabondando fra i 2 palchi per qualche ora, ma parevano interessanti gli LNRipley di cui mi sono poi ritrovata un'intervista nel volume londra zero zero comprato al banchetto dell'agenzia x.  conto di leggiucchiarlo per lumi su grime e dubstep; per ora ne ho evinto che nel terzo millennio si può ancora planare dall'italia a londra e atterrare in uno squat, ma sarà a hackney.