ascolti
blogging in the morning
beata davanto al computer nuovo, ascoltando questo meraviglioso concerto di robyn hitchcock, festeggio – complici un paio di giorni di ferie – tre anni dall’inizio di questi appunti digitali. che c’è da festeggiare? il bello della rete, ovvero la possibilità di scambiarsi idee, senso, anche su scala micro (sia come argomenti sia come numeri) qual è questa. al riparo dal rumore del mondo della «comunicazione» maggiore e al netto di starsystem vari, ma con l’opportunità di conoscere menti affini e tenere d’occhio quel che succede.
ieri e l’altroieri, invece, una rara occasione di sentire cose intelligenti da persone in carne e ossa: i giorni sul teatro di ricerca e il suo rapporto col cinema organizzati dalla rivista brancaleone a milano, allo spazio oberdan. c’erano gli amati motus, fanny & alexander, teatrino clandestino in rappresentanza delle compagnie italiane più interessanti e coinvolte in un rapporto con il cinema che va dall’uso di elementi del linguaggio cinematografico nei loro spettacoli alla produzione di video, ai progetti di cinema veri e propri (per ora molto embrionali, a causa di un rapporto impossibile con le strutture produttive italiane – un inizio è la costituzione dell’associazione LUS).
in italia sembra essere questo teatro a rilevare una modernissima e necessaria funzione di sintesi artistica tra diverse modalità espressive. se in passato è stato proprio il cinema ad appropriarsi di peculiarità di arti visive, musica, teatro, letteratura utilizzandole in modo fecondo, ora spesso è qui la punta avanzata di questo tipo di elaborazione culturale, che io trovo vitale e importantissima, se nasce da un’esigenza autentica (ebbene sì, in fondo sono sempre rimasta convinta dell’utilità del concetto postmoderno nell’arte, anche dopo la sua decadenza causa abuso di citazionismo).
da quel che ho sentito ieri, devo dire che l’agire in gruppi molto compatti e per lo più con i modi dell’autoproduzione sembra agevolare un lavoro molto serio, un ritmo del pensiero che forse quando ci si trova, per esempio, nel vortice di una produzione cinematografica si fa fatica a seguire – e ieri non si è mancato di accennare ai temi strutturali economici e politici che c’entrano sempre quando si parla dello stato dell’arte.
ma soprattutto c’è stata l’occasione di impicciarsi un po’ del farsi di certi spettacoli che poi ti arrivano con tale capacità di sintesi poetica e impatto live da concerto rock da essere di ardua decifrazione e descrizione a parole (come peraltro è giusto che sia, se l’arte viene dall’inconscio e gli parla – trovo sempre utile ricordare in proposito la già citata frase di mamet, che pure non è proprio un avanguardista sfrenato).
motus di nuovo a milano venerdì, sabato e domenica prossimi al teatro i (linko anche se al momento il sito non si apre) con una performance su all strange away di beckett.
non proprio novità
ma per me sì… scopro solo questa settimana:
un bellissimo disco rock (anche un pochino country): alejandro escovedo, boxing mirror, prodotto da john cale. c’è pure su itunes.
verrà demolito il carcere di long kesh (e c’è un gruppo di studio sul suo utilizzo futuro).
il new york times dice che è di gran moda lo smalto per unghie nero. di conseguenza si potrebbe trovare in commercio con maggiore facilità, prestare attenzione.
ancora febbricitanti
qui ci si consola con la prima stampante a colori dopo anni di severità laser postscript in bianco e nero, si attende per domani un computer da scrivania da 20 terrificanti pollici dopo altrettanti anni di amato portatile (portato principalmente dal soggiorno alla cucina e viceversa), si rimpiangono ottocenteschi scambi epistolari dopo aver letto cox, pensando che non s’è mai visto in our lifetime un servizio postale tale da consentirli.
a chi potesse interessare (…), un link sulla vexata quaestio: erano forse di un componente dei procol harum i dischi usciti negli anni 70 a nome matthew ellis/obie clayton? no, erano di michael cox.
compleanno di nick cave
vedi i post del 22 settembre su:
If Charlie Parker Was a Gunslinger, There’d Be a Whole Lot of Dead Copycats.
(dove c’è anche, v. sidebar, un archivio, con ottime introduzioni, dei nastri dell’intervista di truffaut a hitchcock, quella del famoso libro – bene, perché non trovavo più la stazione radio online che li aveva.)
malinconia
di non-concerti: persi i clan of xymox venerdì per mera disorganizzazione mia (nonché città invivibile causa traffico), e come se non bastasse sabato gli offlaga hanno potuto suonare solo kappler prima di essere scacciati dalla pioggia. io sarei anche stata lì imperturbabile nel mio impermeabilino rosso, se solo il gruppo avesse avuto uno straccio di tetto sulla testa, il che non si è dato… sorry, guys. così è milano, a volte, purtroppo.
ho però avuto una bizzarra notizia: incredibilmente, il primo dicembre al transilvania suona john foxx. so già che la curiosità sarà più forte dell’apparente assurdità di questo fatto, superficialmente definibile come anacronistico.
piuttosto vero
«because jazz music is a thing that, as few things do, makes you feel really at home in the world here, as if it’s an ok notion to be born a human animal, or so.»
(colin macinnes, absolute beginners)
brian eno
giovedì scorso alla milanesiana ha parlato di quando voleva essere pittore, e soprattutto di arte generativa («generative art refers to any art practice where the artist uses a system, such as a set of natural language rules, a computer program, a machine, or other procedural invention, which is set into motion with some degree of autonomy contributing to or resulting in a completed work of art», secondo philip galanter), dicendo alcune delle cose che dice qui, è stato spiritoso e insomma adorabile.
ho poi scoperto che a milano abbiamo da anni un convegno sull’arte generativa, e il giorno dopo sono coscienziosamente andata alla triennale a vedere un po’ dei 77 million paintings di eno. eno ha il potere di farti pensare che il mondo sia pieno di intelligenza e di bellezza, e che tutto ciò sia semplice nella sua complessità. brian eno, in generale, ha il potere di farti star bene, qualsiasi cosa lui faccia, e di stupirti senza egocentrismo. non dimentichiamo che tra le carte delle strategie oblique una dice «pensa alla radio», almeno nel mazzo tradotto in italiano da gammalibri. non dimentichiamo che vedere l’installazione place # 16 alla chiesa (sconsacrata) di san carpoforo, l’11 ottobre 86 quando non c’erano ancora i blog e neanche internet e se è per questo non avrei avuto un pc per altri 2 anni, mi rimase davvero molto impresso. e soprattutto che il capolavoro di brian eno sono i dischi in cui ha fatto il produttore, e magari anche la peculiarità di aver inventato un tipo di musica insensata da riprodurre su vinile ma perfetta per i cd e la musica digitale, allora inesistenti.
alla luce di tutto questo, gli si può pure perdonare di fare tanta pubblicità alla apple in un momento in cui l’azienda non è esattamente inattaccabile, e financo di essere amico di michel faber, che peraltro ha riscattato la sua lagnosa presenza in quel consesso dedicando la serata a syd barrett. è poi stato cancellato da un intervento fiume di stefano bartezzaghi, e devo dire che mi sarebbe piaciuto non dover linkare lessico e nuvole ma un suo sito personale dove possibilmente ritrovare il suddetto intervento e confrontare l’esperienza di lettura con quella veramente inquietante di sentirglielo leggere.
qui poi bisognerebbe parlare di rebus corporei e di fanny e alexander, se ce la fa d., che c’era, può lasciare un commento…
ufficio online
da un’oretta. niente incetta di scorte alimentari. peccato, ho un certo languorino.
ascolto quotidiano della settimana (continuo a dedicarmi a singole canzoni, probabilmente con album interi non ce la farei): six organs of admittance, close to the sky – c’è una versione live sul sito.
inoltre ho casualmente risentito southern mark smith di jazz butcher: colgo l’occasione per segnalare gran copia di mp3 ufficiali e chiedermi perché nessuno porta in italia pat fish, che se lo meriterebbe quanto se non più di altri coetanei.
per la cronaca
stasera diamanda galás mi ha ripetutamente impallato il computer (la finestrina nera traslucida con scritto «devi riavviare» in tutte le lingue mi mancava).