I’ve been chasing ghosts, and I don’t like it

è uno dei frammenti di canzone che, per la combinazione unica di testo, musica o chissà, tengo appiccicati in testa come francobolli su una lettera già spedita. ce ne sono altri, ovviamente. se opportunamente brevi, si prestano tutti a fare da titolo a un blog (happy when it rains, per esempio: mi sentirei di regalarlo, solo a referenziatissimi).

dying on the vine è la mia canzone preferita di john cale. john cale non l’ha suonata nel concerto del 17 novembre. sarebbe scorretto dedurne che quel concerto mi è piaciuto meno di altri? e che per questo ho tardato a cata(b)log(g)arlo (accumulando anche un piccolo senso di colpa in merito)? forse, o forse no. fatto sta che l’impressione residua dell’evento si può chiarire con un confronto tra il biglietto caleiano del 1997 e quello del 2003. ecco, l’effetto è un po’ quello lì.

peraltro, johnny (con questo improbabile vezzeggiativo – se non addirittura giovanni, forse per citare un pezzo dell’ultimo disco – lo chiamavano due vicini di sotto-il-palco: credo fosse per questo che lui rifuggiva ostinatamente dal guardare il pubblico) ha sempre il suo splendido vocione, ha deliziato gli astanti esibendosi in venus in furs (fa un certo effetto sentir cantare quel I am tired, I am weary da uno sopra i 60: aggiunge qualcosa, credo), e i pezzi nuovi li ha suonati con un’incisività che poi mi ha fatto ascoltare hobo sapiens con interesse maggiore (per adesso, però, l’unica canzone alla sua altezza mi pare magritte). la band era simpatica. lui in forma, benché un po’ riservato. quei pezzi in cui imbraccia la chitarra acustica, sempre belli. e allora, cosa? gli anni passano, ecco cosa.

bizzarro, il filo conduttore degli ultimi concerti visti: over 50 (anni) e/o under 300 (persone)… dai wire (la cosa più punk, meno fronzoli da un bel po’ di tempo in qua) a I am kloot (mirabile sintesi di cinismo e calore). E cale, che di certo ha avuto più soldi (e più vanità) dei wire per curarsi denti, salute e guardaroba.