capita

che mentre faccio un lavoro meccanico – di quelli che ci costringe a fare il computer – o anche solo noioso, mi passa tutta la mia vita davanti. cioè, non tutta ma delle immagini all’improvviso, in cui mi percepisco in un altro posto, magari dimenticato o poco identificabile. così.

poi capita che nel tornare a casa vedo delle cose vere ma non meno strane: tipo un adesivo sul tram, l’altro giorno, che diceva «fotografiamo la tua cellulite gratis» (e io ho pensato ma neanche se mi pagaste profumatamente, figuriamoci gratis), e accanto al tram uno che andava in moto con un casco uguale all’elmetto delle sturmtruppen. un altro giorno, un cellulare della polizia penitenziaria e un signore vestito da capo a piedi di arancione brillante, dalla maglietta ai bermuda ai mocassini di pelle. e oggi una signora vestita da capo a piedi di arancione brillante, dal tubino un po’ lucido alla borsetta di una stoffa simile, fino ai mocassini. di pelle. questi due li ho visti in posti non distanti – secondo me si conoscono, potrebbero addirittura essere marito e moglie.

post dell’ora di pranzo: senza bruciare il blog…

do un contributo teorico alle iniziative blogastronomiche (bellissime, ma non riesco mai a cucinare niente in tempo).
gattostanco oggi ci provoca sulla vexata quaestio dell’insalata di riso: e io rispondo che gli ingredienti per l’insalata di riso sono prosciutto cotto a cubetti, formaggio a cubetti, piselli, pomodoro fresco (abbondare col pomodoro), olio extravergine.
questa è per me l’ortodossia, una delle poche cose in cui aderisco completamente all’istituzione familiare, materna, matriarcale. poi ci sono tanti risi freddi diversi e buonissimi, ma non sono l’insalata di riso: non fatemi vedere wurstel, sottaceti o tonno. al limite un’oliva nera, se proprio.

il sensore della serialità

o ce l’hai o non ce l’hai: è quella parte del cervello che ti fa piacere le serie televisive, le trasmissioni radiofoniche quotidiane, i weblog, topolino. tutte le forme di testo il cui valore non sarebbe lo stesso senza la ripetizione. (anche l’abusata metafora della malattia può essere adatta: il piacere della serialità come un germe delle modalità cognitive [ma come parlo? questa carenza di lessico scientifico è scandalosa]: si installa, e cerca continuo nutrimento).
comunque sia, colui che notoriamente non ce l’ha (il sensore, oppure è immune al germe o verme) ieri sera tornando a casa e trovandomi davanti al computer – come accade, diciamo, spesso – si è messo a ridere e mi ha detto: «mi pare che sei entrata nella P2!»

per la verità, mica sempre sto lì a leggere/scrivere blog (cosa che tra l’altro, in questo periodo mindboggingly dull, posso fare, ehm, in ufficio).
è vero invece che il computer per me (e ovviamente anche per milioni di altre persone, che però non vivono in casa mia) non è più solo uno strumento per lavorare o per fare alcune ben delimitate altre cose.

un po’ è la rete, sì: il computer c’entra con tutto, in particolare da quando c’è la linea veloce (è interessante mettersi in casa un pezzo di tecnologia in più e stare a vedere che cosa farà di te): banca e altre cose burocratiche. ricerca informazioni. ricerca robe da comprare che altrimenti non si trovano. lettere agli amici. pigrizia: faccio prima ad aprire il portatile che a prendere un’enciclopedia.

un po’ è la possibilità di digitalizzare, be’, tutto. siccome per me la sintesi (ho un ossessivo bisogno di sintesi, una compulsiva tensione alla sintesi), ormai l’ho capito, alla fine è più importante della qualità, la possibilità di tenere vicini parolefotofilmusicaestratticontoebook eccetera è di importanza inestimabile e mi pare foriera di una vita migliore. non so bene perché. ma sono sempre lì ad aggiungere pezzettini.
si tratta anche di una via una fuga dai problemi logistici: in una casa mancherà sempre spazio, oppure bisognerà traslocare. il powerbook, non lo nego, è piccolino e un po’ vecchiotto, ma se gli regalo un masterizzatore e un altro hd, chissà mai dove potrà arrivare.
il giorno che riesco a sostituire la scarpiera con un hard disk, sarà meraviglioso.

sfuggire alla contrapposizione (culturale) tra natura e cultura

l’altro giorno mi ha colpito un post di babsi jones, che esprime un concetto a me ben noto: una volta, anch’io della natura me ne sbattevo, proprio, e invocavo come mie solo le giungle d’asfalto. adesso, quando vedo un fiore poco ci manca che il trucco (tanto caro a chi ama l’artificio come arte di costruirsi un mondo) mi si sciolga indecorosamente. un’interpretazione possibile, oltre a un rammollimento forse fisiologico e progressivo, al quale però una mente vigile dovrebbe pur riuscire a opporre resistenza, è questa: davanti a un’umanità che tanto spesso dà il suo peggio, datemi la natura, anytime. spiacevole finché si vuole – non ci sono solo i fiori -, ma almeno so con chi ho a che fare (poi ci penso io a stare a distanza di sicurezza, non sono mica scema). e anche i gatti, anche i gatti non mi sembra che mi piacciano per il loro essere «i meno animali delle bestie quadrupedi» (per quanto la loro adattabilità a vivere con noi chiusi in appartamento abbia dell’inquietante) ma proprio perché bestie sono; anche dietro al più domestico la bestia sempre c’è, e l’indifferenza inconsapevole che le è propria è così vera da farmi venire un groppo in gola.

per la cronaca

il mio viaggio di sabato verso imola si è svolto con tre mezzi di trasporto: treno, auto e bicicletta.

al matrimonio della mattina avevo un vestito verde bandiera a grossi bolli bianchi, con una giacchina che per caso è dello stesso verde e sandali bianchi. il mio moroso ha detto che ciò sarebbe stato più adatto a un matrimonio nell’ohio degli anni 50, a patto di avere un grande cappello. mio padre mi ha detto che sembravo miss lega lombarda.

jammin1anche questo esperimento di ubiquità è fallito. ho mollato il matrimonio ben prima del taglio della torta, ma questo non mi ha impedito (coda in autostrada) di arrivare al festival troppo tardi per vedere i pixies :-(((( per i quali dovrò continuare a vivere dei ricordi del secolo scorso. la disperazione mi ha impedito di gustare il solare concerto di ben harper, ma mi ha sicuramente predisposto nel migliore dei modi al concerto dei cure.

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se una mattina d’estate una viaggiatrice

se sabato prossimo doveste andare nella città dove siete nati, al matrimonio di uno che da piccoli volevate sposarlo voi, e poi proseguire lungo la via emilia fino ad arrivare nelle ore più calde in un autodromo affollato, dove la maggior parte di quelli che suonano saranno più vecchi di voi ma la maggior parte del pubblico sarà molto più giovane, e insomma doveste affrontare una giornata potenzialmente ricca di picchi emotivi ma più probabilmente foriera di una stanchezza tipo chi-me-l’ha-fatto-fare, insomma, voi… che cosa vi mettereste?

mi ha scritto la rai

è un paio d’anni (da quando il peggioramento dei programmi non è più un divenire, ma ha proprio toccato il fondo ed è rimasto lì) che cerco di fare obiezione al pagamento del canone.
di solito resisto fino all’avviso di pignoramento, poi il mio timore della legge (non credo sia amore per la legalità) mi fa cedere, e pago. rimettendoci, ovviamente.
oggi è arrivato il secondo sollecito.
ricordo che la prima volta che mi scrisse la rai fu quando mi ero laureata da poco e attendevo risposta ai curriculum mandati in giro. pertanto nell’estrarre la busta dalla cassetta delle lettere pensai sulle prime che la rai volesse offrirmi un lavoro. fu un attimo. brevissimo. poi mi venne in mente che avevo appena comprato un televisore.